mercoledì 20 ottobre 2010

UNDERCOVERS: "sesspionaggio" alla J.J. Abrams


Le clip che la NBC aveva fatto vedere di Undercovers prima della messa in onda non hanno reso giustizia alla serie. Sembrava decisamente inguardabile. La firma però è quella di J.J. Abrams (Felicity, Alias, Fringe), qui ideatore insieme a Josh Reims, e co-sceneggiatore e regista del pilot. Era doveroso darci almeno un’opportunità. C’è ben poco al di là dell’aspetto ludico, ma come piacere colpevole funziona anche, più di quanto non ci si aspettasse. Steven e Samantha Bloom (gli impassibilmente belli Boris Kodjoe e Gugu Mbatha-Raw) sono due ex-agenti della CIA che hanno deciso qualche anno prima di ritirarsi per sposarsi e avere la possibilità di una vita felice insieme. Gestiscono una compagnia di catering, in cui lavora anche la sorella di lei, Lizzy Gilliam (Mekia Cox). Un giorno Leo Nash (Carter MacIntyre), un loro vecchio collega ed ex ragazzo di lei, sparisce nel nulla durante l’”operazione Cigno Nero”, il tentativo di trovare e catturare Slotsky, un killer terrorista criminale-di-guerra fra i più ricercati dell’Interpol, un apice di piatta cattiveria senza redenzione. Carlton Shaw (un Gerald McRaney in forma smagliante) con rassegnata riluttanza porta loro la proposta dei suoi superiori: la CIA li rivuole per ritrovare l’agente disperso. Viene loro affiancato Bill Hoyt (Ben Schwartz), fan di Steven, un personaggio che, con la sua smaccata ammirazione e un certo timore reverenziale, alleggerisce la tensione e incarna un po’ lo spettatore pieno di devozione per i propri eroi, di cui assiste alle gesta. A fine puntata raggiungono il loro obiettivo, ma la proposta è quella di rimanere a lavorare come spie. Loro naturalmente accettano, e già in corso di via si è accennato al fatto che in realtà li si è “riattivati” al servizio per altre, più oscure ragioni.

I due attori principali sono credibili come coppia e il fatto di avere degli attori neri nel ruolo di protagonisti principali in una serie che mescola azione e romanticismo è abbastanza inusuale da volersi applaudire. Mentirei se non ammettessi che ho pensato ad un “effetto Obama”. Un po’ è Alias, un po’ è Chuck, un po’ Mr. & Mrs. Smith. Ci sono le corse a perdifiato per scappare dalla situazione di pericolo o dal nemico di turno, le scazzottate sui tetti a rischio di precipizio, le torce accese, i database dei computer, i gadget alla James Bond. Steven usa dei gemelli che scattano foto e li trasmettono al computer di Bill, nel pilot, per esempio, Samantha non batte ciglio nel caricare e sparare con un bazuka (o quanto meno un’arma che a me inesperta è sembrata tale) mentre guida: questo è il genere di eventi che ci si può aspettare, e fra un quadro e l’altro, ci scappa che romanticamente si abbraccino in un giro nella sala da ballo del ricevimento in cui si sono infiltrati. Ci sono le location in giro per il mondo, raggiunto nel giro di un battito di ciglia senza sforzo, e ci sono le lingue corrispondenti pronunciate sempre come si fossero parlate fino al secondo prima (spagnolo, francese, russo…). Si può restare soddisfatti fintanto che ci si accontenta di facili avventure a perdifiato e un po’ di romanticismo, di “sesspionaggio” come ha ribattezzato la serie la mescolanza di sesso e spionaggio, e fintanto che non si viene irritati dal fatto che si cerca troppo di essere carini a tutti i costi. La battuta prefabbricata da film d’avventura ti fa ridere finché sei dodicenne, poi la trovi un po’ patetica. Alla fine, mi pare una sorta di Cuore e batticuore giorni nostri, in salsa spionaggio.

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