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venerdì 9 novembre 2018

GOD FRIENDED ME: ateismo vs. fede



È una sorta di Ultime dal Cielo in salsa religiosa God Friended Me, o forse, meglio ancora, è un più scettico e disincantato Joan of Arcadia nell’epoca dei social network, e pur presentando storie banali o comunque costruite ai limiti della credibilità, riesce ad essere amabile e giocoso a sufficienza da non alienare il pubblico di fronte ad un dibattito anche importante, quello fra atei e religiosi. Nonostante la premessa, o forse proprio per quella, spinge verso l’idea dell’esistenza di Dio, ma è aperta al confronto, al dibattito, all’incontro fra i due versanti ideologici.

Miles Finer (Brandon Michael Hall, The Mayor), figlio di un predicatore, il reverendo Arthur (Joe Morton), è un ateo convinto e ha un podcast in cui parla apertamente di queste sue convinzioni. Un giorno riceve una richiesta di amicizia su Facebook da parte di Dio. Lui rifiuta, ma l’Altissimo non molla l’osso finché lui non accetta. Seguono dei suggerimenti di amicizia che Miles si vede costretto ad accettare, finendo per conoscere le persone in questione e per aiutarle. La prima che incontra, Cara Bloom (Violett Beane, The Flash), è una giornalista con il blocco dello scrittore che grazie a lui re-incontra la madre che l’aveva abbandonata anni prima, e presto diventa una presenza importante nella sua vita. A raccogliere le sue confidenze è anche l’esperto di computer Rakesh (Suraj Sharma), che cerca con e per lui, di scoprire chi si nasconde dietro all’account “Dio”. Miles è convinto si tratti di una burla, ma allo stesso tempo non può non guardare con sospetto come segni di un Essere Alto elementi ed accadimenti che incrocia nella vita. La sorella Ali (Javicia Leslie) spinge perché padre e figlio riprendano dei rapporti più stretti.

In un mondo, e in un contesto come gli Stati Uniti, così polarizzato sulle tematiche religiose, è apprezzabile una serie che riesce a evitare predicozzi, ma a portare ragioni e argomentazioni sia per credere che per non credere in Dio, umanizzando l’altra parte qualunque sia quella di partenza. Anche lì dove c’è candore non è ebete creduloneria. Gli attori, Brandon Michael Hall in primis, sono convincenti e riescono a infondere i personaggi non solo di umanità, ma anche di un pizzico di umoristico distacco e sospetto di fronte alla bizzarria della situazione, che però indagano razionalmente. Un feel-good drama sull’americana CBS ideato da Steven Lilien e Bryan Wynbrandt.  

venerdì 8 luglio 2016

GREENLEAF: un po' soap, un po' sermone


Ideata da Craig Wright (Lost, Six Feet Under, Dirty Sexy Money) e con Oprah Winfrey fra i produttori esecutivi oltre che nel cast, Greenleaf (in onda su OWN, l’Oprah Television Network) è una sorta di soap opera del night-time ambientata nel mondo della religione, una specie di Empire wannabe della fede.

Grace Greenleaf (Merle Dandridge), che in passato era una famosa predicatrice,  dopo 20 anni di assenza torna insieme alla figlia adolescente Sophia (Desiree Ross) a Memphis, nel Tennessee, nella casa di famiglia, che è a capo di una ricca e numerosa congregazione religiosa (oltre 4000 fedeli a funzione) prevalentemente afro-americana, in occasione del funerale della sorella Faith. Il padre, il vescovo James Greenleaf (Keith David) vorrebbe che lei si fermasse, la madre Lady Mae (Lynn Whitfield) le intima esplicitamente di non seminare zizzania. E al tavolo di famiglia cominciano presto le discussioni, quando lei ammette di andare in chiesa ormai solo a Natale e a Pasqua e la interrogano sul significato del cristianesimo per lei. Il fratello maggiore Jacob (Lamman Rucker), sposato con l’ambiziosa Kerissa (Kim Hawthorne), è un libertino. La sorella Charity (Deborah Joy Winans), ministro della musica della chiesa, sta cercando di avere un figlio dal marito Kevin (Tye White), segretamente gay. Grace si confida con zia Mavis (la sopracitata Winfrey) proprietaria di un club che fa musica jazz.

C’è molto “amo Gesù” nelle vicende, ma nonostante la facciata di devozione, molti sono gli intrighi, i segreti, gli scandali, il potere, l’avidità, le infedeltà, le rivalità e gelosie, le vendette, l’abuso di sostanze, la corruzione e la violenza che presto vengono a galla, così come la politica e i conflitti all’interno della chiesa, anche senza considerare un’investigazione delle autorità per possibili irregolarità finanziarie.

Il titolo Greenleaf (Fogliaverde, che è il cognome della famiglia protagonista)  ha molteplici significati, come ha spiegato, in occasione del Tribeca Film Festival dove la serie ha avuto la premiere, lo stesso ideatore - in passato lui stesso un predicatore: nella Bibbia in alcuni versi si dice che se segui il denaro soffrirai, ma se segui Dio fiorirai come una foglia verde; c’è la nozione di foglia verde come verdoni, quindi denaro; e lui collega la serie a un’immagine: la venuta di Grace che spazza via tutto,  e il vescovo che ammonisce di stare attenti a un piccolo quadrifoglio perché c’è il rischio che venga distrutto quando è qualcosa di tenero e verde che vuole vivere.

Wright promette che il programma non è una soap e non è un sermone ma in realtà ha un po’ il gusto di entrambi, anche se le redini del melodramma sono ben tirate e c’è spazio per posizioni dissenzienti e realismo nel ritrarre alcuni dibattiti che hanno a che vedere con le varie idee del cristianesimo. Le storie non sono originalissime, ma c’è un certo fascino per questo, al di là del piacere colpevole.

Sono previste due stagioni da 13 episodi.

venerdì 18 settembre 2015

HAND OF GOD: fede, truffa, follia


Il figlio di un anziano potente giudice, PJ (Johnny Ferro), ha cercato di togliersi la vita finendo in coma irreversibile, dopo che è stato costretto a guardare mentre un criminale violentava la moglie Jocelyn (Alona Tal, Veronica Mars). Il giudice suo padre, Pernell Harris (Ron Perlman, Sons of Anarchy), vero protagonista di Hand of God (Mano di Dio), presumibilmente per lo stress causato da questi eventi, comincia ad avere un comportamento erratico, a sentire voci e ad avere visioni, che interpreta e segue come fossero messaggi di Dio, con conseguenze anche criminose. Come “born again Christian”, cristiano rinato nella fede, dice che intende rinunciare ai suoi regolari incontri con una prostituta, Tessie (Emayatzy Corinealdi), e comincia dispensare quella che considera la giustizia divina, con l’aiuto di un criminale violento e sociopatico con fissazioni religiose, KD (Garret Dillahunt). A fomentare questa sua convinzione di fede è un sedicente religioso, con un passato di attore di soap opera, specificatamente Febbre d’Amore, Paul Curtis (Julian Morris, Pretty Little Liars, che non mi risulta abbia nella realtà mai partecipato alla suddetta soap), a cui il giudice ha regalato molti soldi che lui e la sua compagna di imbrogli Alicia (Elizabeth McLaughlin) usano apparentemente per fondare una nuova congregazione. La moglie Crystal (Dana Delany, Body of Proof), così come i professionisti con cui viene a contatto nel suo lavoro, come il sindaco Robert Boston (Andre Royo, The Wire), sono preoccupati.  

Così parte la nuova serie di 10 puntate targata Amazon ideata da Ben Watkins, con una premessa simile a quella di American Crime (i genitori hanno a che vedere con le conseguenze di un crimine violento nei confronti dei propri figli) e di Boss (una figura autorevole della comunità comincia a “dare di matto”). Il temi maggiori sembrano essere nei quello delle truffe travestite da religione che puntano senza scrupoli esclusivamente al denaro, alle spalle di gente vulnerabile, disperata e facilmente circuibile e quello delle follie a cui conduce una fede cieca. Il pilot ha avuto qualche momento di impatto, come la combinata umiliazione di un poliziotto e della nuora avvenuta nel tentativo di scoprire il colpevole seguendo le indicazioni di una allucinazione di Pernell. La serie però ha raccolto soprattutto recensioni negative, per la mancanza di sottigliezza e per ostentare lordura, squallore e turpitudine senza una contropartita umana rivelatoria, nonostante l’apprezzabile recitazione. 

mercoledì 2 novembre 2011

THE WALKING DEAD (stagione 2): zombie, fede e recessione economica


Nonostante io abbia anche apprezzato in partenza The Walking Dead, alla fine della prima stagione non ero così sicura di volerlo seguire, a causa, come ho spiegato in un post, dei forti, aggressivi maschilismo e misoginia che me ne rendevano pesante la visione. All’inizio della seconda stagione (su Fox dal 17 ottobre, ore 22.45, in pratica in contemporanea con la messa in onda negli USA), seppure la prima nuova puntata non avesse nulla di particolarmente specifico in questo senso, la sensazione mi è rimasta, come di un retrogusto, di un’etica di fondo rabbiosa che alla fine mi fa sentire in modo brutto riguardo a me stessa in quanto donna. È il punto di vista umano che non mi soddisfa. Per questo non sono sicura di volerla seguire anche nella seconda stagione, questa serie, abbandonata in corso di via dal suo showrunner Frank Darabont quest’estate, notizia ampiamente riportata dalla stampa, e già confermata per un terzo ciclo. Intanto ho cominciato comunque.
“What Lies Ahead – La strada da percorrere” (2.01), fuori dalle considerazioni di cui sopra, è stata appassionante. Si è ripreso dal momento subito successivo alla chiusura della prima stagione, quando erano saltati in aria i CDC di Atlanta (il centro per il controllo delle malattie americano). Ed è ricominciato il viaggio, la grande fuga, in macchina, in camper, in moto. Magari lo hanno fatto anche nella prima stagione e non me lo ricordo, ma vedere ora Norman Reedus (che interpreta Daryl Dixon) su una motocicletta non può non far tornare alla mente la sua partecipazione al video di Lady Gaga, Judas, cosa che mi pare voluta. C’è stata la tensione dell’orda di zombie putrescenti da cui hanno dovuto nascondersi, cercando di rimanere silenziosi e immobili, la scomparsa della piccola Sophia (Madison Lintz), e un memorabile colpo di scena finale che non rivelo per evitare spoiler.  
Oltre a quello della sopravvivenza è emerso in modo molto forte il tema di non perdere la fede. In apertura sentiamo Rick (Andrew Lincoln) proprio dire che è quello che cercano di preservare, a dispetto di tutto. Per fine puntata lo vediamo in chiesa, davanti ad una statua lignea di Gesù in croce. Si chiede se lo stia guardando con tristezza, disprezzo, pietà, amore, o forse indifferenza. E chiede un segno. Un segno per avere fede in un futuro diverso. E subito dopo ne riceve uno, non c’è che dire, sempre a proposito del colpo di scena finale che non voglio rivelare.
Su Slate, Torie Bosch riflette sul fatto che gli zombie hanno ufficialmente smesso di essere il genere amato da ragazzini adolescenti soli e vergini, lato macabro di quello che sono per le ragazzine gli unicorni, per diventare una storia dell’orrore fiscale, rappresentazione delle paure della recessione economica, incubo dei colletti bianchi di un mondo dove le loro competenze sono inutili e dove loro diventano un peso  e dove chi sopravvive meglio sono i colletti blu (poliziotti, meccanici, cacciatori…). Forse.