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sabato 24 febbraio 2024

THE FALL OF THE HOUSE OF USHER: serie gotica ispirata a Poe

Liberamente tratta dall’omonimo racconto di Edgar Allan Poe del 1840 e da altre sue opere, The Fall of the House of Usher - La caduta della casa degli Usher (Netflix – rilasciata il 12 ottobre 2023) è un horror gotico che si muove su due assi temporali: il primo fra il 1953 e il 1980, in cui si narra l’ascesa al potere del potente CEO di un'azienda farmaceutica, la Fortunato Pharmaceuticals, e della sua sorella gemella, ambiziosa direttrice operativa dell’azienda; il secondo, nel momento presente della prima messa in onda, quando inizia un processo nei confronti della famiglia Usher ritenuta responsabile della morte di moltissime persone che assumevano il loro farmaco di punta, il Ligodone, che ha causato l'epidemia di oppioidi mentre negavano che creasse dipendenza, e quando il magnate perde a uno a uno tutti i suoi sei figli nel giro di due settimane.

ATTENZIONE SPOILER

Roderick Usher (Bruce Greenwood; e da giovane adulto Zack Gilford), il CEO di cui sopra, dopo il funerale dei suoi figli, invita a casa propria C. Auguste Dupin (Carl Lumbly), un sostituto procuratore degli Stati Uniti. Costui ha trascorso la vita a cercare di portare alla luce il marcio della Fortunato, e Roderick gli racconta come ha iniziato la sua carriera, dell’apporto di sua sorella Madeline (Mary McDonnell, e da giovane adulta Willa Fitzgerald) e della misteriosa donna, Verna (Carla Cugino) anagramma di Raven-Corvo, una delle svariate forme che riesce ad assumere, che avevano incontrato nel Capodanno del 1979, con la quale avevano stretto un patto e che è responsabile della cruenta morte dei suoi discendenti. Soffre di una patologia chiamata CODASIL - una “leucoencefalopatia vascolare caratterizzata da una serie di episodi clinici tra cui icuts ricorrenti, emicrania, sintomi psichiatrici e disturbi cognitivi” ci dice il sito dell’ospedale Niguarda, una demenza vascolare dice più in semplicità la serie - per cui ha delle allucinazioni. Nondimeno ricorda con chiarezza i suoi inizi ambizioni ma idealistici, e nel presente la tragica fine dei suoi cari. Ora è sposato con Juno (Ruth Codd) e suo consigliere è l’avvocato Arthur Pym (Mark Hamill).

Muoiono in ordine di età, dal più giovane al più vecchio tutti i sui figli, gli ultimi due i soli legittimi nati dalla stessa madre – i loro nomi sono presi ognuno da una diversa opera di Poe (per questo e tanti altri riferimenti all’opera dell’autore americano si veda questo interessante pezzo su The Walk of Fame). Prospero (Sauriyan Sapkota), un edonista dedito ad orge e droghe che si merita l’appellativo di “Gucci Caligola” viene annientato da una pioggia acida nel corso di una festa (1.02); Camille (Kate Siegel), a capo delle pubbliche relazioni della Fortunato, viene dilaniata dagli scimpanzé che l’azienda tiene in gabbia per i loro esperimenti; Napoleon (Rahul Kohli), produttore di videogame che ha problemi di dipendenza dalla droga, finisce per buttarsi giù da un balcone, ossessionato dal gatto che ha preso in sostituzione di quello del suo compagno che lui ha ucciso mentre era in uno stato alterato di coscienza; Victorine (T'Nia Miller), una scienziata che sta sperimentando un nuovo device cardiaco su scimpanzé con l’intenzione di usarlo preso sull’uomo, finisce per impalarsi temporaneamente impazzita dopo aver accidentalmente ammazzato la sua collaboratrice e amante; Tamerlane (Samantha Sloyan), che lavora con il proprio compagno a un progetto di prodotti di bellezza, fitness e stili di vita e che lei amava guardare mentre faceva sesso con altre, perde la cognizione del tempo e finisce sfregiata e dilaniata da specchi che rompe; e infine Frederick (Henry Thomas), il primo erede con una figlia avuta da Morella che, sfigurata dalla stessa pioggia acida che ha ucciso suo fratello, lui tortura: immobilizzato dalla stessa droga che dava alla moglie indifesa viene sepolto dalle macerie di un loro edificio in demolizione. Non si salva nemmeno la nipote.

Con qualche eco dantesco e Shakesperiano, la miniserie si ispira indubbiamente a Succession per il tipo di ambiente familiare che vuole mostrare, come ne dà indizio la colonna sonora che in alcuni momenti la richiama, ma poi mantiene in prevalenza la stessa sensibilità di The Haunting of Hill House (2018) e The Haunting of Bly Manor (2020) - che ho seguito, ma su cui non ho mai scritto - di cui è già stato autore e showrunner l’ideatore Mike Flanagan che qui riserva per sé anche il ruolo di regista, che condivide solo, alternandosi, con Michael Fimognari che per la serie è direttore della fotografia.

Se ho elencato in modo specifico le morti, inanellate in puntate successive autoconclusive rispetto alla sorte di ciascun figlio, è perché l’aspetto di maggior intrattenimento è quello di vedere che fine spetta a ciascuno dei figli Usher, persone privilegiate, viziate e senza scrupoli: quella è la parte goduriosa, vedere quanto orrorifiche ed originali siano. Si svelano i loro vizi, depravazioni, segreti. Non hanno cura per niente e per nessuno e il senso ultimo di vederli morire è quello di vederli pagare per le proprie azioni, dare la vita per quello che ritengono di non debba avere conseguenze in virtù di quello che sono. C’è un senso di giustizia.

Come è più esplicito dalla spettacolosa puntata finale, piena di citazioni poetiche, si riflette sulle conseguenze delle proprie scelte, sull’eredità che si lascia ai posteri memorabile l’immagine del patriarca che vede dalla vetrata del grattacelo la sua: una fitta pioggia di cadaveri —, su che cosa significhi veramente essere ricchi;  poi si parla di dolore (dopotutto l’azienda ha fatto fortuna vendendo antidolorifici) e ci si giustifica anche con una sensata dichiarazione politica e un j’accuse alla società tutta messi in bocca a Madeline.

Non c’è mai paura, ad esclusione al limite di qualche occasionale jump scare per le allucinazioni del CEO che sono improvvise. Bruce Grenwood, che mi fa tenerezza ricordare ragazzo nella serie Legmen, è stato davvero portentoso. Qui c’è atmosfera gotica, senso di terrore imminente, di vago sovrannaturale, feeling di inatteso disfacimento fisico ed emotivo, gusto per l’inquietante. Su questa linea, convincente a appagante. E alla fina la caduta della casa degli Usher non è solo metaforica o intesa come caduta di una famiglia, ma come effettivo crollo di un edificio: bel tocco.   

giovedì 3 dicembre 2020

LOVECRAFT COUNTRY: il vero orrore è il razzismo

 


La poetica che fonda Lovecraft Country (HBO, Sky Atlantic), tratto dall’omonimo romanzo di Matt Ruff, è piuttosto esplicita: creare una serie a tinte horror con mostri, magia e antichi culti per mostrare che il vero orrore non sta lì, ma nella vita quotidiana per i neri che devono vivere il pervasivo razzismo sistemico. Siamo negli Stati Uniti degli anni ’50, ma il Country, il Paese in questione, è qualunque presenti quella realtà e di qualunque epoca. Lovecraft è in riferimento allo scrittore americano Howard Phillip Lovecraft (1890 – 1937) che è uno dei padri fondatori di questo genere di letteratura – e se ne recuperano in TV temi ed estetica – ed era dichiaratamente razzista. Come scrivono su Slate: “Il romanziere nero N.K. Jemisin ha sostenuto in modo convincente che il razzismo di Lovecraft è al centro dell'orrore che intendeva trasmettere nella sua opera: un terrore cosmico ed esistenziale unito a un profondo disgusto fisico”.

Sottotitolato “La Terra dei Demoni” in italiano, e ideato da Misha Green, la serie di HBO ha come protagonista Atticus detto “Tic” Freeman (Jonathan Majors), un veterano della guerra in Corea che, di ritorno a Chicago, legge una lettera del padre scomparso, Montrose (Michael K. Williams) che lo invita a scoprire un misteriosa eredità di famiglia nel Massachussetts. Si mette così in viaggio nell’America dell’epoca della segregazione.  Con lui va suo zio George (Courtney B. Vance), che scrive una guida stile-Green Book (qui una buona spiegazione di che cosa fosse, nel caso) e che è sposato con Hippolyta (Aunjanue Ellis), che ha passione per l’astronomia e da cui ha una figlia, Diana (Jada Harris). Insieme a loro va anche l’amica Letitia “Leti” Lewis, abile fotografa che ha un contrastato rapporto con la sorellastra maggiore, Ruby (Wunmi Mosaku). Sulla via incontrano orrori soprannaturali e fin troppo umani e presto si imbattono nella Loggia di Ardham, progettata da Titus Braithwhite, schiavista di cui Atticus sarebbe un discendente e fondatore di una società segreta dedita all’occulto chiamata i Figli di Adamo, ora reclamata dalla figlia di lui, Christina (Abbey Lee). Nel corso delle vicende, Atticus ritrova anche una giovane aspirante infermiera che aveva conosciuto in Corea, Ji-Ah (Jamie Chung), che è più di quello che sembra.

Alcune atmosfere – specie quelle legate alla Loggia di Ardham - ricordano Watchmen, che ne condivide le tematiche razziali. Quest’ultimo lo valuto come intellettualmente, narrativamente ed esteticamente più ambizioso e riuscito, anche se più astruso. Qui la trama è solida e avvincente e fra orribili creature che divorano gli umani, scheletri che si rianimano, resurrezioni, pozioni trasfiguranti, rituali magici, case infestate e spiriti demoniaci, esperimenti e viaggi nel tempo e nello spazio, l’aspetto più propriamente ludico è assicurato, ed è una visione molto easy. Ma il piano metaforico e allegorico, o anche quello più propriamente reale – penso anche solo al pilot dove lo sceriffo locale dopo il tramonto ha il diritto di linciare chiunque trovi e i protagonisti sono costretti a una rocambolesca fuga in macchina - sono quelli più pregni di significato e non sono mancate vette notevoli.

Qui ci si affida a molti aspetti iconici dell’horror, di cui conosce bene il canone, ma per l’autrice nulla è sacro, tutto è opzionale, e fa di questa libertà la sua forza. Si vuole comprendere il passato, ma per andare al futuro. La serie è al contempo anche un family drama che mostra dolore e ingiustizia e che cosa significa doversi battere per la liberà. Ed è una storia on the road. La Green, apprezzata per Undergroud, che considera una serie “sorella” (cfr. TV Top 5, del 14 agosto 2020), e che ha scritto anche per Heroes, ha dichiarato che nella sua formazione, e quindi nell’intendere i propri programmi, molto ha influito Battlestar Galactica. Puntate come la season finale poi hanno un gusto molto alla Buffy per me.

Non vedo, come ha sostenuto il New York Times, nel ben scritto e ben argomentato articolo firmato da Maya Phillips, che nel cercare di capovolgere gli stereotipi razziali, sessuali e di genere abbia finito per rinforzarli lanciando messaggi offensivi e privi di gusto in modo gratuito, facendo riferimenti a vere persone della storia nera solo in modo “ornamentale”, come riferimento, senza che abbiano una pregnanza tale da rendere onore a quelle sofferenze e ferite personali e generazionali. Colgo l’osservazione, ma mi pare un peccato veniale, così come è vero che si trattano temi come l’essere gay o trans volendone esplorare l’umanità e i traumi, ma non vedo che si faccia conflagrare l’essere queer con l’essere i cattivi della situazione, semmai si mostra come chi è marginalizzato dall’essere nero non si accorge, nonostante quello che vive, che chi è demonizzato per altre caratteristiche fa esperienza di una situazione similare. Rigetto in toto le accuse di colorismo per il fatto che la più chiara Leti sarebbe più centrale rispetto alla sorella dalla pelle più scura.     

Un aspetto che ho apprezzato molto sono gli effetti speciali, che di solito non mi interessano granché. In particolare le trasformazioni di Ruby che attraverso una pozione diventa una donna bianca e poi torna nera, sono state estremamente viscerali e soddisfacenti, ogni volta che sono state mostrate, sia nell’aspetto visuale che metaforico.

Non tutte le puntate sono ugualmente riuscite, ma si riesce nel delicato compito di rendere godibilmente leggere tematiche molto toste e sgradevoli. 

lunedì 28 settembre 2015

SCREAM QUEENS: morti e cattiverie gratuite


Delude fortemente la nuova serie antologica comico-horror-trash in 13 puntate firmata da Ryan Murphy (American Horror Story, Glee), Brad Falchuk  e Ian Brennan, Scream Queens. Ci troviamo nella fittizia Wallace Univesity dove l’associazione femminile più ambita di cui far parte è la Kappa Kappa Tau. Nel 1995 una ragazza che ne faceva parte era stata trovata morta in una vasca da bagno dopo aver dato luce a un bebè, ma la faccenda era stata insabbiata dal rettore di allora, Cathy Munsch (Jamie Lee Curtis), che ricopre ora lo stesso ruolo.
Interessate solo ad essere belle, ricche e popolari, le studentesse della  sorellanza, dopo la morte sospetta di un’altra ragazza, nel 2015 sono comandate con un pugno di ferro dalla “regina” Chanel Oberlin (una Emma Roberts in forma smagliante), giovane esasperatamente snob che delle sue tirapiedi non conosce il nome perché tanto le chiama con il proprio, seguito da un numero. C’è perciò un personaggio che si chiama ufficialmente Chanel n. 5  (Abigail Breslin). Tiranneggia e umilia chiunque le capiti a tiro, che sia la cameriera dei loro alloggi o il barista Pete Diller (Diego Boneta). L’intervento della presidente nazionale della sorority Gigi Caldwell (Nasim Pedrad) impedisce che la confraternita venga chiusa, ma sono obbligate ad accettare qualunque richiesta di iscrizione, ed è così che fanno domanda diverse indesiderate, fra cui Hester Ulrich (Lea Michelle, Glee), che porta un grande apparecchio al collo, Zayday Williams (Keke Palmer), voce della ragione del gruppo, e Skyler Samuel (Grace Gardner), dolce e ficcanaso (e se fosse la bimba venuta alla luce in quella vasca da bagno 20 anni prima?). Nella premiere che è una puntata doppia compaiono come guest star Ariana Grande, nel ruolo di Chanel n. 2 e Nick Jonas nel ruolo di Boone. Un uomo vestito da diavolo comincia ad ammazzare ragazze a destra e a manca. Si trattengono a stento panico e urla.
Un miscuglio di American Horror Story: Coven, Glee, Greek, Popular, Scream, Gossip Girl, Pretty Little Liars e Mean Girls, la serie preme l’acceleratore su tropi e cliché. Occasionalmente c’è qualche guizzo ben riuscito (come il caso della ragazza e l’assassino che, faccia a faccia, si parlano via sms sul cellulare) e ci sono venature di humor anche apprezzabili, ma l’eccesso caricaturale sfocia nella vignetta risibile, e la parodia della superficialità non si vede bene quanto parodia alla fin fine sia. Come sempre con questi autori, si è particolarmente efficaci sul versante dell’omofobia, ma per il resto si può ridurre tutto a qualche morto e una sfilza di cattiverie gratuite.

lunedì 17 febbraio 2014

PENNY DREADFUL: il trailer

 
Ecco sotto il trailer della nuova serie horror che debutterà il prossimo 11 maggio sull’americana Showtime, intitolata Penny Dreadful, ideata da John Logan e con Sam Mendes come produttore esecutivo.
Che cos’è un “penny dreadful”? Come spiega il blog della produzione, erano delle pubblicazioni di fiction dell’Ottocento che uscivano in edicola ogni settimana e che avevano contenuti raccapriccianti, legati all’occulto, il crimine e il sovrannaturale. Alcuni degli archetipi della letteratura sono ispirati a dei penny dreadful, come il Dracula di Bram Stoker che ha preso spunto dal racconto “Varney the vampyre”. John Logan dichiara che quello che fa sono appunto dei penny dreadful, solo televisivi e non cartacei.
Storie originali si mescoleranno a personaggi classici come Frankenstein, Dorian Grey o Dracula.  

venerdì 29 marzo 2013

AMERICAN HORROR STORY: ASYLUM: notevole


La seconda stagione di American Horror Story, “Asylum” (Manicomio), mi pare si possa dire si sia mossa su due piani di lettura: uno l’ho gradito, l’altro molto meno.
Tutti quelli che lavorano come operatori di salute mentale, diciamo così, il programma li ha presentati come instabili loro stessi, cosa che non ho apprezzato. In particolare Sister Mary Eunice (Lily Rabe) è stata un’assassina posseduta dal demonio, il dottor Arthur Arden (James Cromwell) era un nazista sadico. Sister Jude (Jessica Lange) è stata fatta spogliare dell’abito ogni qualvolta ha mostrato cedimenti o dubbi sulla bontà dei rigidi insegnamenti che seguiva. Ho trovato ridondante, e deludente, in questa prospettiva, la rivelazione del dottor Oliver Thredson (Zachary Quinto) come lo psicopatico serial killer noto come Bloody Face che, cresciuto in orfanatrofio e privato del tocco umano e dell’affetto materno che ha sempre agognato da bambino, ammazzava le sue vittime con una maschera di carne umana, si faceva i paralume di pelle umana e usava come posacenere i teschi – un po’ di umorismo nero non guasta. Certo, è sicuramente anche un discorso sul potere e sulla paura, come lascia intuire la posizione ambigua del Monsignore (Joseph Fiennes), che autorizza il male cercando il bene, ma che poi per ragioni di ambizione personale copre quello che sa che è accaduto anche quando se ne rende conto. Che non si salvi nessuno, nel suo ruolo istituzionale, mi ha lasciato l’amaro in bocca.
Il secondo piano di lettura più significativo, che ho invece molto apprezzato è che viene etichettato come pazzo chiunque si discosti dalla norma sociale riconosciuta, e abbiamo: la giornalista Lana Winters (Sarah Paulson) internata perché lesbica (e le tecniche rieducative della sua sessualità tragicamente ricordano quanto di vero è accaduto  nella storia); il giovane Kit Walker (Evan Peters), un bianco sposato a una nera, accusato di averla uccisa, ma convinto che a rapirgli la moglie siano stai gli alieni; Shelley (Chloë Sevigny), la cui colpa è che le piace un po’ troppo il sesso, trasformata in un mostro senza gambe e pieno di bolle dagli esperimenti del dottor Arden; “Anne Frank” (Franka Potente), che soffre di depressione post-partum e a cui viene praticata una lobotomia…
Nelle potente puntata in due parti intitolata proprio “I am Anne Frank” (2.04 e 2.05) una casalinga che si crede Anne Frank, si presta a una lettura molto chiara: è considerata una pazza perché vede la realtà come è (riconosce in Arthur un nazista ed è infelice della propria vita), ma torna ad essere felice del proprio stato non appena le viene fatta la lobotomia. Bisognava essere lobotomizzati per essere felici del limitante stato di casalinga e madre sempre perfetta e sorridente, dice la serie. Non solo, le parti “felici”, nel registro filmico-estetico, sono state mostrate quasi fossero una vecchia pellicola di film, un’illusione insomma, rispetto alla realtà – tecnica che è stata ripresa in successive puntate.
In generale la serie, anche con Sister Jude che finisce per essere internata lei stessa, permette poi di porsi il quesito su che cosa sia quello che etichettiamo come “malattia mentale”. 
Ian McShane nel ruolo di Leigh Emerson, un Babbo Natale assassino, in una “puntata natalizia” (Unholy Night, 2.08) che la serie si è concessa, è stato a dir poco ispirato. Efficacissimo è stato l’utilizzo della macchina da presa che ora ondulava, ora era capovolta, dava la nausea e disorientava, così come da brivido l’ultilizzo “ossessivo” della canzone Dominique dell’artista “Singing Nun”. La puntata finale di chiusura, “Madness Ends” (2.13) che ha ripercorso le tappe dell’“e-dopo?” con Lana che incontra il figlio Johnny (Dylan McDermott) già cresciuto che vuole emulare il padre Bloody Face poteva anche non esserci, ma ho apprezzato, oltre che il trucco, l’interpretazione di Sarah Paulson nel modo in cui ha recitato il suo personaggio da vecchia e sono rimasta anche ammirata della qualità estetica del video che passava da immagini che dovevano essere girate negli anni ’70 a quelle contemporanee. Questa stagione davvero ha fatto una riflessione estetica sulla qualità delle immagini davvero notevole.
AHS, che si voglia chiamare miniserie o forse più adeguatamente serie di teatro di repertorio o qualcos’altro ancora (si leggano le riflessioni di David Bianculli in proposito), ha un cast stellare – memorabile anche Frances Conroy nel ruolo dell’angelo della morta - che è davvero ai massimi livelli, e avuto una intensa riuscita stagione. Io continuo a pensare, come in passato, che non faccia paura, nel senso che non provoca paura, quanto meno non a me, e il motivo è che è troppo “dell’orrore” per fare davvero paura. Lì dove lo è stata meno, dove ha voluto scioccare il pubblico perché esca dalla proprio stato di noncuranza, per prendere a prestito meta-testualmente il proposito che Lana attribuisce al proprio lavoro (1.13), dove insomma è stata più “vera”, è riuscita a infilare un senso di disagio notevole.
È stato già annunciato il titolo della prossima stagione, “Coven” (Congrega). Si parlerà di donne hanno detto, e di streghe, a giudicare dal titolo. Di femminismo, immagino… non vedo l’ora.

sabato 3 marzo 2012

AMERICAN HORROR STORY: qualche indizio sulla seconda stagione


Ero incerta se American Horror Story mi avrebbe conquistata al di là del convincente inizio. Sono rimasta tiepida per tutta la prima metà della prima stagione, poi nella seconda metà mi ha proprio trascinata, con un colpo di scena in particolare, nell’episodio scritto da James Wong “Smoldering Children – Giù la maschera” (1.10), per me davvero inatteso: non rivelo nulla in proposito per non dare spoiler a chi non l’avesse visto. Non ho trovato nulla nella serie che facesse paura, ma questa è un’altra questione. Tema portante della prima stagione, per esplicita ammissione del co-ideatore Ryan Murphy (nella foto), erano gli orrori che ci sono nel matrimonio in seguito alle infedeltà, e questo era una colonna portante evidente.
La seconda stagione, da quanto si sa già dalla fine dello scorso anno, non avrà la stessa ambientazione e gli stessi protagonisti o lo stesso tema. Quello che abbiamo visto nella finale è stata la fine della casa degli Harmon e nella seconda stagione dello show ci saranno una casa o un edificio nuovi di zecca, aveva dichiarato all’Hollywood Reporter, aggiungendo che ogni stagione del programma avrebbe avuto un inizio, un mezzo e una fine: “È un’idea divertente fare un programma antologico. Questo è stato il progetto dello show dall’inizio; è un modo davvero forte e interessante di narrare un storia dell’orrore: in ogni stagione c’è ciò che costituisce un orrore americano”.
L’autore poi in questi giorni, in occasione del PaleyFest 2012, ha rivelato che ci si sposterà da Los Angeles alla costa Est degli USA, ha confermato la presenza di molti degli attori del cast originario, in particolare Jessica Lange e Zachary Quinto, ma anche Evan Peters, Sarah Paulson e Lily Rabe, solo che interpreteranno personaggi diversi (se non addirittura opposti) da quelli in cui li abbiamo visti nella prima stagione, e ha strizzato l’occhiolino ai fan dicendo che il segreto che riguarda la prossima stagione si può trovare nella penultima puntata della prima stagione, “Birth - Nascita” (1.11). In quell’episodio a Violet viene spiegato che la casa ha una sorta di presa paramagnetica di energia negativa che si nutre dei traumi delle persone e le attira verso di sé. Murphy dice che questo genere di presa paramagnetica si può trovare in luoghi come le prigioni o i manicomi e questo dovrebbe essere l’indizio più forte sul tipo di “istituto dell’orrore” che sarà al centro delle vicende.
Oggi poi, sempre sull’Hollywood Reporter, ha ulteriormente rivelato: “Sento che l’elemento sovrannaturale sarà sempre una parte del programma, ma non penso che ne siamo interessati allo stesso modo. Stiamo cercando di fare qualcosa di molto più storicamente accurato”. E la sola regola che si sono ripromessi di seguire è quella di non avere né vampiri né lupi mannari, ma a parte quello, ci sono tanti sottogeneri horror da esplorare: “Mi sono piaciuti molto i fantasmi… ma la parte divertente del programma, il dono del programma, è reinventarsi ogni anno. Perciò non credo che torneremo su un tropo che abbiamo già fatto”.
Altro cambiamento per la serie, la cui seconda stagione dovrebbe debuttare ad ottobre, sarà la sigla, che era ispirata al thriller del 1995 di David Fincher Se7en: sarà modificata e offrirà qualche indizio su ciò che ci aspetta.

mercoledì 2 novembre 2011

THE WALKING DEAD (stagione 2): zombie, fede e recessione economica


Nonostante io abbia anche apprezzato in partenza The Walking Dead, alla fine della prima stagione non ero così sicura di volerlo seguire, a causa, come ho spiegato in un post, dei forti, aggressivi maschilismo e misoginia che me ne rendevano pesante la visione. All’inizio della seconda stagione (su Fox dal 17 ottobre, ore 22.45, in pratica in contemporanea con la messa in onda negli USA), seppure la prima nuova puntata non avesse nulla di particolarmente specifico in questo senso, la sensazione mi è rimasta, come di un retrogusto, di un’etica di fondo rabbiosa che alla fine mi fa sentire in modo brutto riguardo a me stessa in quanto donna. È il punto di vista umano che non mi soddisfa. Per questo non sono sicura di volerla seguire anche nella seconda stagione, questa serie, abbandonata in corso di via dal suo showrunner Frank Darabont quest’estate, notizia ampiamente riportata dalla stampa, e già confermata per un terzo ciclo. Intanto ho cominciato comunque.
“What Lies Ahead – La strada da percorrere” (2.01), fuori dalle considerazioni di cui sopra, è stata appassionante. Si è ripreso dal momento subito successivo alla chiusura della prima stagione, quando erano saltati in aria i CDC di Atlanta (il centro per il controllo delle malattie americano). Ed è ricominciato il viaggio, la grande fuga, in macchina, in camper, in moto. Magari lo hanno fatto anche nella prima stagione e non me lo ricordo, ma vedere ora Norman Reedus (che interpreta Daryl Dixon) su una motocicletta non può non far tornare alla mente la sua partecipazione al video di Lady Gaga, Judas, cosa che mi pare voluta. C’è stata la tensione dell’orda di zombie putrescenti da cui hanno dovuto nascondersi, cercando di rimanere silenziosi e immobili, la scomparsa della piccola Sophia (Madison Lintz), e un memorabile colpo di scena finale che non rivelo per evitare spoiler.  
Oltre a quello della sopravvivenza è emerso in modo molto forte il tema di non perdere la fede. In apertura sentiamo Rick (Andrew Lincoln) proprio dire che è quello che cercano di preservare, a dispetto di tutto. Per fine puntata lo vediamo in chiesa, davanti ad una statua lignea di Gesù in croce. Si chiede se lo stia guardando con tristezza, disprezzo, pietà, amore, o forse indifferenza. E chiede un segno. Un segno per avere fede in un futuro diverso. E subito dopo ne riceve uno, non c’è che dire, sempre a proposito del colpo di scena finale che non voglio rivelare.
Su Slate, Torie Bosch riflette sul fatto che gli zombie hanno ufficialmente smesso di essere il genere amato da ragazzini adolescenti soli e vergini, lato macabro di quello che sono per le ragazzine gli unicorni, per diventare una storia dell’orrore fiscale, rappresentazione delle paure della recessione economica, incubo dei colletti bianchi di un mondo dove le loro competenze sono inutili e dove loro diventano un peso  e dove chi sopravvive meglio sono i colletti blu (poliziotti, meccanici, cacciatori…). Forse.

mercoledì 19 ottobre 2011

AMERICAN HORROR STORY: un thriller psicosessuale


Gli autori Ryan Murphy e Brad Falchuck (entrambi di Glee e Nip/Tuck) lo avevano definito, già in occasione del primo promo, come un thriller psicosessuale, e ora che American Horror Story ha debuttato (sull’americana FX dallo scorso 5 ottobre, in Italia su Fox da novembre) la definizione sembra appropriata.
Ben (Dylan McDermott, The Practice) e Vivien (Connie Britton, Friday Night Lights) Harmon per superare un periodo difficile - hanno perso il bambino che aspettavano e lei ha trovato lui a letto con una studente – hanno deciso di trasferirsi da Boston a Los Angeles, insieme alla figlia Violet (Taissa Farmiga), un’adolescente che si autoferisce procurandosi dei tagli alle braccia. Acquistano una casa, dove sono avvenuti degli omicidi e che è infestata da varie presenze e apparizioni.
Fanno presto conoscenza con la governante Moira, ma mentre tutti la vedono come una signora anziana (Frances Conroy, Six Feet Under), Ben la vede come una giovane affamata di sesso (Alex Breckenridge) che cerca di sedurlo. E ricevono le visite inaspettate della ragazza con la sindrome di down Adelaide (Jamie Brewer) - che dice a tutti che in quella casa moriranno, cosa effettivamente avvenuta a due gemelli molti anni prima, e non solo a loro – e della madre di lei, la loro sinistra vicina di casa Constance (Jessica Lange), che chiama la figlia “mongoloide” e dice che se avesse saputo come sarebbe uscita avrebbe abortito – è in poche parole una versione drammatico-horror di Sue Sylverster di Glee, molto insultante e molto poco politically correct. Ben viene seguito da Larry (Danis O’Hare, True Blood), un uomo sfigurato da un incendio (ma potremmo scherzosamente dire dalla serie precedente, dove era un vampiro lasciato ustionare al sole) e il solo sopravvissuto a quella casa. Vivien, che non fa sesso con il marito da praticamente un anno, ha un incontro sessuale con un uomo in una tuta di lattice, che lei crede il marito (lo è o no?). La giovane Violet a scuola è oggetto di un feroce bullismo (un tema molto caro a Murphy e Falchuck) e fa amicizia con uno dei pazienti del padre, che è uno psicologo, il coetaneo Tate (Evan Peters) che ha molte fantasie omicide. 
American Horror Story: prendo una parola alla volta.
American. Troy Patterson su Slate scrive: “Per ora, American Horror Story non è la grande storia d’orrore americana ma piuttosto una nottata di spavento veramente buona. Il titolo porta più peso di quanto il suo contenuto possa reggere. Mi fa ricordare la recensione di Joyce Carol Oates di American Wife di Curtis Sittenfeld: ‘C’è un’esperienza distintamente americana? L’Americano, di Henry James; Una Tragedia Americana, di Theodore Dreiser; Un Americano Tranquillo, di Graham Greene; Il brutto americano, di William Lederer e Eugene Burdick; Pastorale Americana, di Philip Roth; e American Psycho di Bret Easton Ellis – ciascuno suggerisce, nel suo stesso titolo, una dimensione mitica in cui personaggi fittizi intendono rappresentare tipi o predilezioni… ‘Americano’ è una identità carica di ambiguità, e di quelle parabole allegoriche di Hawthorne in cui ‘bene’ e ‘male’ sono misteriosamente congiunte.’ Non preoccupatevi troppo di tutto questo. Questo cibo spazzatura gourmet vi dà puro male (…)”.

Horror. Non c’è stato alcunché che mi abbia provocato la più minima paura e la serie è più adeguatamente descritta come un thriller che non una vicenda dell’orrore. Mira a disturbare, ad inquietare, con la sigla (sotto) che ben trasmette il senso generale del programma. L’uso di immagini a flash e soprattutto un sapiente utilizzo del montaggio, che togliendo alcuni fotogrammi stacca di continuo scene che diversamente sarebbero lineari, sono quello che stilisticamente colpisce di più. Come riferimenti sono stati citati Psycho, Rosemary’s Baby, The Others, al cinema, e in tv mi ha fatto ripensare soprattutto a Twin Peaks, e alla soap gotica cult degli anni ’60 Dark Shadows – la prima immagine, della casa vittoriana che è il fulcro delle vicende, tanto protagonista quanto le persone in carne ed ossa, mi ha immediatamente richiamato alla memoria Collinwood. C’è anche una buona dose di kink, come c’è da aspettarsi coerentemente alla premessa, e non ricordo di averne mai visto in partenza di così esplicito, in TV. In qualche modo la memoria mi ha anche richiamato, in proposito, la puntata “Baba Yaga” della serie nostrana Valentina, ma dato che l’ho vista una sola volta nell’anno della messa in onda (il 1988) ed il ricordo è quello che è, non so quanto dar credito a questo parallelismo. Da subito in ogni caso risulta chiaro che il vero orrore non è tanto quello sovrannaturale, ma quello della vita quotidiana, dei demoni personali e relazionali, del mondo, un luogo che l’originale definisce filthy, lurido, sporco, perverso, turpe, schifoso. La vita è il vero orrore.  
Story. Il sopracitato critico di Slate ha osservato, in modo che ho trovato simpatico e azzeccato, che se questo telefilm fosse un libro sarebbe un incrocio fra un volume che raccoglie critiche cinematografiche, vista la pletora di horror da cui “ruba”, e il DSM-IV. Forte è anche la valenza meta testuale. Che cosa ci fa paura? Le storie sono modi in cui controlliamo la paura, dice Ben al suo paziente. È perciò una storia intesa come modo di mostrare, affrontare e controllare la paura? La TV non ha avuto molte serie vagamente definibili come horror – e finché sono come Harper’s Island, si capisce anche il perché. American Horror Story è un originale. Il pilot è stato convincente. Già la seconda puntata, ispirata a veri omicidi, ha avuto un calo e sono stati più i momenti che a me hanno procurato ilarità che non terrore. Murphy e Falchuck non sono noti per la sottigliezza, amano il gridato, le tinte forti. Credo che American Horror Story sia un programma da non perdere, uno di quelli a cui in futuro si farà spesso riferimento. Quanto buono sia però, lo dirà solo il tempo.

giovedì 27 gennaio 2011

HORROR IN PRESA DIRETTA: il nuovo numero di Ol3Media


È online il nuovo numero di “Ol3Media” (Anno 04 - Numero 09 - Gennaio 2011), rivista online di Cinema, Televisione e Media Studies del Master Cine&Tv, dedicato questo numero all’Horror in presa diretta.

Di seguito trovate l’indice degli interventi:

 Presentazione a cura di Corrado Peperoni

L’inferno del Reale di Diary of the Dead – Le cronache dei morti viventi di George A. Romero di Andrea Mariani

What If It’s Real?: Live-record Horror and Popular Belief in the Supernatural by Joseph Laycock

Il cannibalismo dei media in soggettiva e allo specchio: [.REC] di Jaume Balaguerò e Paco Plaza di Marco Cipolloni

Revising Paranornal Activity: Paranormal Entity is Reality Horror Perfected by Karley Adney 

A Pre-History of ‘Reality’ Horror Film by Alexandra Heller-Nicholas

George A. Romero’s Diary of the Dead and the Rise of the Diegetic Camera in Recent Horror Films by Zachary Ingle

Double the Passive: The trials of the viewer/subject in Cloverfield and The Blair Witch Project by Keira McKenzie

Lying To Reveal the Truth: Horror Pseudo-Documentaries and the Illusion of Reality by Don Tresca

No Country For Old Cannibals: L’amazzonia di Deodato e i Mondo Movies di Marco Cipollini

Zero Day and Cloverfield: Shooting America’s Scars by Peter Turner

Blood, evil and videotapes: L’orrore senza fine di Rec. di Miguel Ángel Pérez-Gómez e Milagros Expósito-Barea

mercoledì 12 gennaio 2011

HARPER'S ISLAND: incapace di creare la giusta suspense



In Harper’s Island, telefilm in 13 puntate ideato da Ari Schlossberg in onda su Fox dal 14 gennaio (ore 21.00), una giovane coppia, Henry Dunn (Christopher Gorham) e Trish Welllington (Katie Cassidy) decidono di sposarsi e raccolgono su un’isola tutti i parenti e gli amici per la cerimonia e la festa. Peccato che su quell’isola anni prima fosse stata assassinata la madre di Abby Mills (Elaine Cassidy), amica dello sposo. A uno a uno, gli invitati cominciano a morire e passato e presente sembrano intrecciarsi. Una premessa originale di una serie horror (che già son rare) è stata rovinata da una regia priva di immaginazione e banale, incapace di creare la giusta suspense, e da una sceneggiatura che ha introdotto troppi personaggi in un colpo solo senza ben delinearli e che non ha saputo far sì che ci importasse qualcosa se vivevano o morivano.