mercoledì 6 aprile 2011

REALITY in una domanda di ammissione al college: è polemica



Recentemente c’è stata una polemica, negli Stati Uniti, perché nel test di ammissione al college, il SAT, realizzato dallo stimato College Board, che raccoglie 5600 istituzioni accademiche, è stata inserita una domanda relativa ai reality. Subito sono nate battute e accuse di abbassamento del livello culturale del test e si è fatto sentire lo scontento di quei genitori che ritengono deleterio per i propri figli non solo i reality, ma la televisione in generale. Il College Board ha difeso la propria posizione.

Una parte del test consiste sempre nello svolgimento di un tema. Il titolo del tema da svolgere contestato era:

 
I programmi reality, che hanno come protagonisti persone vere impegnate in vere attività piuttosto che attori professionisti che interpretano scene da un copione, sono sempre più popolari. Questi programmi ritraggono persone ordinarie che competono in tutto, da cantare a ballare a perdere peso, o semplicemente mentre vivono la propria vita quotidiana. La maggior parte delle persone crede che la realtà che viene rappresentata in questi programmi sia autentica, ma vengono tratte in inganno. Quanto autentici possono essere questi programmi quando i produttori progettano le sfide per i partecipanti e poi gli editor alterano le scene filmate? La gente trae beneficio dalle forme di intrattenimento che mostrano la così-detta realtà, o tali forme di intrattenimento sono dannose?
Laurence Bunin, vice presidente senior del College Board, ne ha difeso la posizione dicendo che quello che era necessario per rispondere bene era saper scrivere e argomentare la propria tesi, e che non era necessario guardare i reality per avere una posizione da difendere, allo stesso modo in cui uno studente chiamato a scrivere su una scalata in montagna, e a dire se siano maggiori i rischi nel farlo o la ricompensa di raggiungere la cima, non deve necessariamente aver scalato la montagna per fare delle riflessioni sull’argomento. Si rendono conto che non tutti gli studenti guardano i reality, né vogliono incoraggiarli a farlo, ma ritengono che la maggior parte sia in grado di cogliere il senso della domanda e sia interessata agli argomenti di sottofondo: “gli effetti della televisione sulla società; il desiderio di fama e celebrità da parte di ‘persone ordinarie’; e l’autenticità e il valore delle varie rappresentazioni ‘realistiche’—un tema centrale nello studio della pittura, del cinema, del teatro e della letteratura”.

Altri hanno difeso la traccia del tema, ma con argomentazioni ben diverse da quelle di Laurence Bunin. In sintesi: certo che era necessario aver visto i reality per difendere la propria argomentazione, ma questo non è necessariamente una cosa negativa. Kyle Spencer, in un articolo del Daily Beast, scrive: “(l)a televisione è la forma di espressione culturale più dominante nel nostro Paese, e batte il cinema, le pubblicazioni della stampa, e i libri, secondo una ricerca della Compagnia Nielsen. Più di 280 milioni di persone giovani e vecchie si sintonizzano quotidianamente”, e continua, “sebbene le cifre della Nielsen come questa—che l’Americano o l’Americana medio/a trascorre il 20 per cento della sua giornata guardando la televisione—possano sembrare allarmanti, l’esistenza sempre-presente della televisione nelle nostre vite è un fatto. E non può più essere ignorato.” Naturalmente nessuno ritiene che bambini e ragazzi (o adulti di per sé) debbano passare uno sproposito di ore davanti al piccolo schermo, e non aprire mai un libro, ma è importante che guardino anche la TV se vogliono essere in grado di relazionarsi al mondo circostante, e con quello che guida, influenza e connette molte delle persone intorno a loro. L’atteggiamento compiaciuto del genitore che dice che il proprio figlio non guarda la TV non è da approvare, perché “crescere un figlio che non sarebbe stato in grado di rispondere a quella domanda del SAT è crescere un isolato luddista che troverà difficile contribuire alla democrazia in cui viviamo”.

Nell’articolo sopraccitato, si portano a sostegno della propria tesi—che io peraltro condivido, così come quelle che seguono—alcune autorevoli voci. Robert Thompson, direttore del Bleier Center for Television and Popular Culture della Syracuse University, concorda, dicendo che non si può essere cittadini impegnati senza aver a che fare con questi aspetti della cultura. Tessa Jolls del Center for Media Literacy (Centro per la Alfabetizzazione sui Media), ritiene che la stessa questione “TV o non TV” sia ormai superata. Quello che è necessario è insegnare ai ragazzi a consumare la televisione in modo intelligente, con la consapevolezza che c’è qualcuno che costruisce quello che stanno guardando e decide che cosa mostrare e che cosa no. L’alfabetizzazione sui media è una assoluta necessità, e non dare ai ragazzi gli strumenti critici necessari significa lasciarli in una situazione di svantaggio. Lynne Joyrich, professore associato del Dipartimento di Cultura Moderna e Media della Brown University, sostiene che è doveroso cercare di capire la televisione, perché è la lente attraverso cui gli americani vedono il mondo. Per come la vede lei, i reality nello specifico potranno sembrare frivoli, ma affrontando questioni complesse come la competizione, l’ambizione, l’essere motivati, come affrontare pericoli, come cooperare e negoziare e mettono lo spettatore di fronte a temi che normalmente non affronterebbero. Hanno a che fare in definitiva con le modalità con cui si è parte del mondo e non chiedere ai ragazzi di decostruire quello di cui fanno esperienza guardando la TV rischia di renderli ingenui e vulnerabili, cosa pericolosa vista l’ubiquitarietà del piccolo schermo.

Non posso che vedermi d’accordo, e, mutatis mutandis, le stesse osservazioni ritengo siano applicabili alla realtà italiana.

Fonte: The Daily Beast; Foto: Corbis; MTV; Fox.


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