“L’uomo bianco è il
diavolo” diceva inizialmente Malcom X, nella sua autobiografia raccontata ad
Alex Haley, l’autore di Radici da cui
è stata tratta una storica miniserie televisiva. Erede spirituale di quella produzione,
per i tempi contemporanei, è “La Ferrovia Sotterranea” (Amazon Prime), adattata
da Berry Jenkins anch’essa da un romanzo, l’omonimo di Colson Whitehead, che
dimostra bene come quell’affermazione del leader nasca in un substrato storico
che non la rende proprio gratuita, ma al contrario ben condivisibile.
The Undergroud Railroad, in originale, è la storia di un viaggio, meglio
una fuga, di una schiava nera, Cora (Thuso Mbedu), dalla piantagione dei
Randall in Georgia attraverso numerosi stati del Sud, in cerca della libertà,
attraverso la misteriosa ferrovia sotterranea del titolo e perennemente e
ferocemente inseguita dal cacciatore di schiavi Arnold Ridgeway (Joel Edgerton),
che ha al suo seguito un piccolo aiutante nero, Homer (Chase W. Dillon). La
ferrovia in questione è un’invenzione della finzione, lì dove quella opzione di
salvezza nella realtà era costituita da una rete di abolizionisti e nascondigli
secreti che aiutavano uomini e donne a fuggire e mettersi in salvo.
L’aspetto che più mi ha
sorpreso è quanto questa produzione mi abbia richiamato Westworld. Al di là di questo accostamento, che non ho idea se
altri l’abbiano fatto, è la cinematografia l’elemento che la eleva, con
inquadrature di scenografie naturali che ci si incanta a guardare. Nel suo
intimo la storia è non tanto forse di denuncia quanto di testimonianza di
quello che un popolo, se così vogliamo chiamarlo, ha dovuto subire – ai
passeggeri che trovano così la fuga viene chiesto infatti di raccontare la
propria storia, annotata su appositi libroni. Assistiamo al senso del
raccontare la propria storia come atto rivoluzionario, come azione di consapevolezza
della propria identità e rilevanza, dinanzi alle atrocità subite.
È un pugno nello stomaco.
Si fatica a scrollarsi il sadismo del pilot dove un fuggitivo viene arso vivo
dopo essere stato frustato ai limiti dell’incoscienza mentre i padroni si godono
lo spettacolo banchettando, o a dimenticare il proprietario bianco che sta a
guardare i suoi schivi mentre copulano per assicurarsi che figlino, come
fossero bestiame. L’apparente buonismo della Carolina del Sud (1.02) nasconde
esperimenti medici sugli uomini e donne operate perché non possano avere figli,
in nome di una società che mira a migliorare la “razza negra”; il supremazismo
bianco della Carolina del Nord, con i suoi sentieri alberati di impiccati e i
suoi roghi di libri, cerca un folle stato “puro” dove agli afro-americani non è
permesso neppure di esistere, nemmeno come schiavi, annullati completamente, e
con coloro chi osa aiutarli.
Ci sono le vite sprecate
per nulla, e talenti – Cora incontra ed è costretta a lasciarsi alle spalle
numerosi altri fuggitivi come lei che incontrano un brutto destino, da quel
Caesar (Aaron Pierre) dagli occhi azzurri che deve nascondere di saper leggere,
che inizialmente scappa con lei, al testardo Jasper che canta e si rifiuta di mangiare,
il cui corpo viene abbandonato nell’inferno del Tennessee.
Oltre alle aggressioni al
corpo nero, come ben ce le ricorda Ta-Nehisi Coates, la deumanizzazione dei
neri, creduta dai bianchi e dai neri stessi, ha mostrato come si è potuti
arrivare a legittimare pratiche che sembrano incivili e insensate ora, che
erano messe in atto solo l’altro ieri. E di come i neri stessi possano
essersene fatti complici. Alla fine questa epopea è una lotta di volontà,
quella della ragazza indomita che fa di tutto per lasciarsi alle spalle gli
orrori, credendo di essere stata abbandonata dalla madre, la cui storia viene
abbozzata in chiusura (1.10), e quella del cacciatore che pure è scresciuto con
un padre antischiavista (Peter Mullan) che gli insegna a cercar il “grande
spirito” in tutti gli esseri umani, ma non lo trova e diventa un terribile
persecutore, per denaro.
C’è speranza di fronte a
tutto il male e la violenza a cui si assiste. Ce lo trasmette la protagonista
con la sua resilienza, ma viene anche dall’idea, espressa da uno dei personaggi
(1.09), che “un’illusione feconda è meglio di un’infeconda verità”, credere di
poter costruire una società in cui ci sia uguaglianza e rispetto reciproco,
anche quando le circostanze fanno credere che non sia possibile, aiuta a
renderla vera, più di quanto non farebbe un realistico disfattismo che vede con
cruda desolazione i fatti.
Mi sono chiesta, se, al di
là di una solida narrazione, qualitativamente notevole, mi sia stato detto
qualcosa di nuovo sul razzismo, qualche prospettiva inusuale che non avessi già
incontrato. Devo ammettere, con rammarico, che non credo sia così. Non mi ha
svelato nulla di nuovo. Il solo taglio inatteso è la giustificazione della
schiavitù come una prova della teoria del “destino manifesto”, ovvero nel ruolo
di predominio che Dio avrebbe assegnato agli Stati Uniti. Non l’avevo mai considerata
in questi termini. Al di là di quello non mi pare di aver scoperto altro sulla condizione dei neri d'America, come
invece magari mi era capitato con LovecraftCountry. Forse sono stata cieca io?
Ammesso questo: che valore etico ha questa miniserie? Io per me lo vedo, metaforicamente, nel sacchettino di semi che Cora si porta dietro come un piccolo tesoro, che qui tanto metaforico non è. Queste storie, proprio come dei semi, dovrebbero far germogliare la consapevolezza di come il razzismo sia cresciuto endemico e sistemico e della necessità dell’antirazzismo.
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