Ideato, sceneggiato e
diretto in modo brillante e avvincente da Mike White (Enlightened),
The White Lotus (HBO Max, e dal 30
agosto 2021 su Sky Atlantic per l’Italia) è un dramma comico-satirico
ambientato in un resort di lusso alle Hawaii. Gli ospiti della struttura vanno
lì in vacanza, ma non riescono a prendersi una pausa dai propri problemi, anzi
questi vengono intensificati dalla reciproca prossimità, con una progressiva
escalation esplodono, e si creano pesanti frizioni con il personale che
gestisce l’albergo, mettendo in luce come le diverse posizioni di privilegio
(economico, sociale, razziale, di gender) impattano la vita di ciascuno. Già
dal pilot, dai primi minuti, sappiamo che ci scapperà il morto, perché la salma
di un cadavere viene imbarcata sull’aereo di ritorno, ma solo alla fine (1.06)
scopriamo chi è la vittima, in quella che è una serie antologica già rinnovata
per una seconda stagione.
Armond (Murray Bartlett, Looking), direttore del resort il Loto
Bianco (the White Lotus), è un uomo gay sempre con il sorriso sulle labbra con
passati problemi di dipendenza da droghe e alcol, sobrio da 5 anni, che insegna
a una neoarrivata che mostrare sé stessi è scoraggiato per i dipendenti. Loro
praticano quello che lui chiama “kabuchi tropicale”, ovvero indossano
perennemente delle maschere, con il solo obiettivo di trattare gli ospiti come
bambini, coccolati e fatti sempre sentire speciali. Presto la sua facciata
crollerà, sotto forti e ripetuti attacchi.
Ci sono tre gruppi di
persone che arrivano in questo piccolo angolo di paradiso. Nicole (Connie
Britton, Nashville, Friday Night Lights, American Horror Story) e Mark (Steve
Zahn, Treme) Mossbacher sono una
coppia un po’ in crisi. Lei è la manager finanziaria, molto performante e
controllante, di un motore di ricerca, lui è il marito che è in ansia perché
teme di avere il cancro ai testicoli. Con loro ci sono il figlio Quinn (Fred
Hechinger), interessato più al telefonino e ai videogiochi che a qualunque tipo
di attività e socializzazione, ostracizzato dalla sorella Olivia (Sidney
Sweeney, The Handmaid’s Tale) che si
è portata in vacanza una cara amica del college, Paula (Brittany O’Grady, Little Voice). Quest’ultima viene presto
attratta da Kai (Kekoa Scott Kekumano), che fa parte dello staff del resort.
Shane (Jake Lacey, Ms America, Fosse/Verdon) e Rachel (Alexandra Daddario, True Detective) Patton sono due novelli sposi in luna di miele.
Lui è un odioso bullo, cocco di mamma Kitty (Molly Shannon), che scontento
perché gli è stata assegnata una suite diversa da quella prenotata, diventa una
spina del fianco della direzione. Rachel lo ha sposato senza conoscerlo bene
come credeva e si accorge presto di aver fatto un errore e di esser per lui solo
una moglie trofeo. Lui in realtà non la ascolta. È una giornalista
free-lance, ma con poco talento e prospettive, ed è indecisa su quale sia la decisione
migliore da prendere per il proprio futuro.
Tanya (Jennifer Coolidge, Two Broke Girls) è una donna matura,
piena di dolori fisici ed emozionali, sull’orlo del tracollo, che è venuta a
disperdere in mare le ceneri della madre scomparsa. Trova il sostegno della
responsabile della spa dell’albergo, l’empatica, disponibile Belinda (Natasha
Rothwell, Insecure), a cui propone
anche di avviare un’attività in proprio, e in seguito lega con un uomo con
problemi di salute, Greg (Jon Cries).
Se la premessa può suonare
un po’ Fantasilandia, già le immagini
della sigla d’apertura, una carta da
partati in cui i disegni di paradiso terrestre sanguinano, si decompongono, o
diventano comunque “disturbanti”, fanno capire che non assisteremo a uno
spensierato idillio. Gli opening credits
si chiudono con il logo del Loto bianco (e il fatto che White sia anche il
cognome dell’autore è un bel tocco): è un fiore che è simbolo di rinascita, ma
non solo, si mostra bello ma affonda le proprie radici nel fango (Salon).
Tra l’altro, nella diegesi, per bocca di Armond si cita anche la lirica “I
mangiatori di loto”, “che parla di andare alla deriva nella vita e di non
integrarsi realmente alle cose e di volersi nascondere dalla realtà della
vita" (Salon).
L’apparenza di lusso e perfezione perciò è una copertina che nasconde ben
altro.
La costruzione dei singoli
personaggi e di che cosa li motiva, e dei rapporti fra loro, è forte e ben
delineata. Armond e Tanya in particolare, nella loro spirale, lui tragica, lei
in positivo, sempre sull’orlo del crollo definitivo, sono ineccepibili. Le
dinamiche si creano in un crescendo via via più intenso e riescono a mostrare
le vulnerabilità di ciascuno. Belinda raccoglie le paure e i dolori di Tanya,
che le si aggrappa in modo disperato, nel tentativo di colmare il proprio vuoto;
si crea apparentemente un rapporto intenso, ma alla fine Tanya è troppo
autocentrata e incapace di comprendere il male che provoca a Belinda, che ne
esce distrutta. Shane è il bambino ricco e viziato che fa i capricci se non
ottiene tutto quello che vuole e Armond è il sottoposto costretto a fare i
salti mortali per accontentarlo fino ad arrivare all’esasperazione.
Paula e Rachel osservano
una realtà che non approvano, ma alla fine non riescono a disvincolarsi da
essa: per paura, per comodità, per mancanza di alternative. Quinn è forse
l’unico che, costretto ad una vita altra, riesce ad apprezzarla e a sceglierla.
In Pop Culture Happy Hour (qui)
si è fatta l’osservazione di come guardando i personaggi all’interno del
proprio gruppo si vede che hanno problemi come tutti e sono magari brave
persone, ma nel rapporto verso l’esterno si vedono i loro punti deboli e come
perpetuino certe dinamiche negative, anche solo per “associazione”. Rachel non
è una cattiva persona e non si comporterebbe mai nel modo disgustoso in cui fa
suo marito nei confronti del personale, ma per associazione anche lei si rende
complice di quel comportamento nel momento in cui, pur non mettendolo in atto
in prima persona, ne ottiene i vantaggi collegati. Il tema del colonialismo
riemerge più volte, in particolare attraverso Olivia, disturbata dallo
spettacolo di nativi hawaiiani ridotti a dare spettacolo per un gruppo di bianchi,
responsabili di averli derubati delle proprie terre.
Lo humor è sempre
presente, sottile, cringe. La visione
è sempre godibilissima. La fine anteposta, in cui sappiamo che c’è un cadavere,
ormai uno stratagemma narrativo abusato, fa sì che ci aspettiamo che qualcuno
muoia, e si ipotizza chi in corso di via, ma non è mai quello il vero motore.
Alla fine in fondo quell’aspetto è anche anticlimatico. L’ipnotizzante musica,
a partire da quella della sigla, ci trasmette un costante senso di vaga
minaccia. L’autore ha dichiarato (Los
Angeles Times) che voleva un genere di musica che facesse sentire allo
spettatore l’ansia di un possibile imminente sacrificio umano, come se si fosse
in una sorta di Hitchcock hawaiiano. La colonna sonora creata da Tapie de Veer
“presenta flauti discordanti e percussioni in costante accelerazione
stratificate con grida animalesche e intensi gemiti”; ha “anche usato uno
strumento sudamericano chiamato charango (simile a un ukulele); una dozzina di
tamburi di diverse culture (per lo più tamburi fatti a mano in legno e pelle
animale); una varietà di shaker naturali; e un po' di piano malinconico”. È inquietante, e ben si
alterna a momenti vocal in hawaniiano che danno un’identità musicale molto ben
definita e memorabile.
La serie è anche ricca di
numerose citazioni librearie: da Nietsche, a Freud, a “L’Amica Geniale” di
Elena Ferrante, a “Blink” di Malcom Gladwell, nelle mani di Shane, e altri
ancora.
Bellezza di superficie e una disillusa, feroce, dolorosa e umoristica realtà al di sotto.
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