sabato 16 ottobre 2021

SQUID GAME: euristica e umanità

Squid Game (오징어게임 in orginale), letteralmente il Gioco del Calamaro, è il più recente fenomeno mediatico planetario di Netflix: 9 puntate, rilasciate il 17 settembre 2021, di un k-drama in cui un gruppo di disperati partecipano a semplicissimi giochi da cortile dell’infanzia – il primo è “Un, due, tre, stella”, in italiano, “Red Light, Green Light” in inglese, nel pilot che in originale si intitola “Il giorno in cui fiorisce l’ibisco”, un altro è un intenso tiro alla fune (1.05). In palio c’è una grossissima somma di denaro, 45,6 miliardi di Won (circa 33-34 milioni di euro), ma chi perde viene eliminato, fisicamente: ucciso brutalmente su due piedi. Appassionante, intenso e con inaspettati colpi di scena.

La serie prende quello che è un vero topos della produzione telefilmica sudcoreana, quello dei debiti pecuniari e delle scommesse, e ci fa un trattamento alla Battle Royale, ovvero al prototipo che ci ha regalato, ispirandoli, anche i vari Hunger Games. In fondo il principio è lo stesso. Qui il twist sta nel senso per cui la brutalità del gioco, con la sua futilità ed infantilità, non è in fondo differente da quello che c’è fuori, da quello che è la vita. Il denaro è la sopravvivenza. È una scelta partecipare, dovuta alle circostanze gravose che i personaggi si trovano a vivere, ma pur sempre una scelta. “Volevo scrivere una storia che fosse un'allegoria o una favola sulla moderna società capitalista, qualcosa che rappresentasse una competizione estrema, un po' come l'estrema competizione della vita” dice l’autore a Variety.

Ci sono tre sole regole: 1. Al giocatore non è permesso di smettere di giocare; 2. Un giocatore che si rifiuta di giocare viene eliminato; 3. I giochi terminano se la maggioranza acconsente. E in questo senso già, grazie a queste regole, in “Inferno” (1.02) c’è un colpo di scena che medita su questioni di scelta, di democrazia, di imposizioni più o meno visibili. E chi applica le regole del gioco non è meno una pedina alla mercé dei pochi eletti che quel gioco lo vogliono per il proprio piacere: sono una piramide gerarchica di senza volto e senza voce che viene eliminata tanto quanto i giocatori stessi, se infrangono le regole o mostrano una qualunque identità fuori dal sistema. Politicamente è una metafora pungente. Qui, piuttosto, a differenza della vita, si ripete più volte, tutti sono sullo stesso piano, nessuno può godere di vantaggi rispetto agli altri – una sottotrama di due puntate sul commercio di organi rimarca questa etica.    

456 persone partecipano nei 6 giochi previsti. Il protagonista principale di questo survival game è Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), a cui viene assegnato proprio il numero 456, che deve una fortuna agli strozzini, e vuole potersi prendere cura della madre diabetica che ha bisogno di un’operazione e della figlioletta di 10 anni, che vive con la sua ex da cui lui è separato e con il patrigno. Cho Sang-woo (Park Hae-soo), numero 218, è un suo caro amico d’infanzia: a capo di una società di investimenti, è ricercato dalla polizia per appropriazione indebita. Kang Sae-byeok (Jung Ho-yeon), numero 67, è una ventenne il cui fratellino è in orfanatrofio, una nordcoreana che cerca di farsi raggiungere dai genitori. Oh Il-nam (Oh Yeong-su), con il numero 1, è un anziano che ha comunque un tumore al cervello che gli lascia poco tempo da vivere, e non ha per questo nulla da perdere.  Abdul Ali (Anupam Tripathi), con il numero 199, è un immigrato pakistano che non riceve uno stipendio da mesi, ma deve mantenere la moglie e il figlio. Jang Deok-su (Heo Sung-tae), con il numero 101, è un gangster che deve dei soldi a dei filippini. Han Mi-nyeo (Kim Joo-ryoung) dice di essere una povera madre nubile (ma la sua backstory non la vediamo).

Il gioco è controllato da un Frontman (Lee Byung-hun), che indossa una maschera nera, e da un elevato numero di guardie che indossano delle tute rosse e delle maschere con il simbolo di un cerchio, un triangolo o un quadrato a seconda del loro grado, figure geometriche che sono diventate anche il simbolo del programma, che riprendono le lettere del titolo scritte in coreano. Fra loro si è infiltrato un poliziotto Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon) che è alla ricerca del fratello scomparso.

Scritto e diretto da Hwang Dong-Hyuk, questo survival thriller è tanto violento quanto pregnante. Non è raro vedere che si spara un colpo alla testa a bruciapelo a un personaggio. Mi è tornata in mente Buffy, di come avevano deciso di far morire i vampiri polverizzandoli quando vengono impalettati, sia perché fa effetto vedere cadaveri insanguinati, sia perché poi c’è sul set molto da pulire. Lì quella scelta è stata intelligente, qui l‘impatto è in parte anche andare nella direzione opposta. E i cadaveri finiscono in bare che sono infiocchettate come pacchi regalo. I giochi di sopravvivenza sono estremamente facili da seguire per lo spettatore, ma molto intelligentemente congegnati (un buon esempio è “VIPS”, 1.07) spremendone ogni possibilità drammatica, e il vero fulcro poi di fatto è sui rapporti umani e sul dramma che i personaggi vivono, e in questo senso emblematica è “Ggambu” (1.06), termine che sta a indicare una sorta di “amico per la pelle”, in cui proprio amicizia, altruismo e fiducia sono sotto i riflettori, in un gioco con le biglie che spezza il cuore. Quello a cui assistiamo sotto al gigante porcellino trasparente che si riempie ulteriormente di banconote a mano a mano che diminuiscono i giocatori in questa sfida letale è l’umanità di ciascuno. Interessante è anche il discorso che la serie imposta sui bias cognitivi e sull’euristica in decisioni, giudizi e comportamenti, un leit motiv nei dialoghi fra i personaggi. Si vedono sofferenza, empatia, generosità, calcolo. Ugualmente intensa (1.07) è la riflessione sul potere e quello che è concesso e sull’anonimato. Poi io non sono competente a sufficienza da argomentare qui in proposito, ma dal momento che viene inquadrato il testo “La Teoria del Desiderio” di Lacan (1.02) non è un grande salto di immaginazione pensare che la tematica del desiderio venga esplorata e con quella cornice di riferimento. Ci si interroga su quale sia la vera ricchezza.

Un grande altro elemento di impatto è quello estetico. Dai costumi – che siano le tute da ginnastica dei giocatori con le candide scarpe Vans tornate in auge, o quelle rosse delle guardie con i simboli geometrici sulla maschera - che sono sia immediatamente riconoscibili e di impatto, e hanno fatto ricordare La Casa di Carta e The Handmaid’s Tale, sia praticamente pronte per merchandise di facile vendita. Alla scenografia: il contrasto fra i pastellosi labirinti di scale – sono l’unica ad aver pensato alla litografia “Relativity” di Escher? -  e la crudezza delle esperienze a cui conducono, il dormitorio, la Corea in bilico fra modernità e tradizione, le postazioni dei VIP fatte anche di corpi umani che diventano mobili o sculture di carne, dipinte da diventare all’occhio oggetti come altri (qui un esempio). E la capacità di coniugare la specificità locale con l’appeal internazionale, alimentando l’Hallyu.  

Parte del piacere per lo spettatore a questo punto è partecipare alla febbre collettiva e al fandom che si lancia in tutta una serie di attività paratestuali collegate – io ammetto di voler provare presto a fare il dolce dalgona, mostrato ne “L’uomo con l’ombrello” (1.03).

Un simile successo per questa serie nessuno lo aveva previsto: la BBCnews riporta (qui) che, secondo quanto riferito dalla piattaforma di streaming, nell’arco di 25 giorni dal debutto Squid Game è stata assaggiata da 111 milioni di utenti. E addirittura Damon Lindelof (Lost, The Leftovers, Watchmen) nella sua pagina ufficiale di Instagram (qui) ha commentato che la serie è perfino meglio di quello che tutti diconoSempre la BBC scrive (qui) che alcuni fan che parlano coreano si sono però lamentati dei sottotitoli in inglese, che non avrebbero una traduzione fedele, e in giro ho sentito lo stesso per lo spagnolo.  Sarei curiosa di sapere per l’italiano, anche se io personalmente ammetto che per pigrizia, pur amando il suono del coreano, ho seguito la serie doppiata in inglese.

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