Squid Game (오징어게임 in orginale), letteralmente il Gioco
del Calamaro, è il più recente fenomeno mediatico planetario di Netflix: 9
puntate, rilasciate il 17 settembre 2021, di un k-drama in cui un gruppo di
disperati partecipano a semplicissimi giochi da cortile dell’infanzia – il
primo è “Un, due, tre, stella”, in italiano, “Red Light, Green Light” in
inglese, nel pilot che in originale si intitola “Il giorno in cui fiorisce
l’ibisco”, un altro è un intenso tiro alla fune (1.05). In palio c’è una grossissima
somma di denaro, 45,6 miliardi di Won (circa 33-34 milioni di euro), ma chi
perde viene eliminato, fisicamente: ucciso brutalmente su due piedi.
Appassionante, intenso e con inaspettati colpi di scena.
La serie prende quello che
è un vero topos della produzione telefilmica sudcoreana, quello dei debiti
pecuniari e delle scommesse, e ci fa un trattamento alla Battle Royale, ovvero al prototipo che ci ha regalato, ispirandoli,
anche i vari Hunger Games. In fondo il
principio è lo stesso. Qui il twist sta nel senso per cui la brutalità del
gioco, con la sua futilità ed infantilità, non è in fondo differente da quello
che c’è fuori, da quello che è la vita. Il denaro è la sopravvivenza. È una scelta partecipare,
dovuta alle circostanze gravose che i personaggi si trovano a vivere, ma pur
sempre una scelta. “Volevo scrivere una storia che fosse un'allegoria o una
favola sulla moderna società capitalista, qualcosa che rappresentasse una
competizione estrema, un po' come l'estrema competizione della vita” dice
l’autore a
Variety.
Ci sono tre sole regole:
1. Al giocatore non è permesso di smettere di giocare; 2. Un giocatore che si
rifiuta di giocare viene eliminato; 3. I giochi terminano se la maggioranza
acconsente. E in questo senso già, grazie a queste regole, in “Inferno” (1.02) c’è
un colpo di scena che medita su questioni di scelta, di democrazia, di
imposizioni più o meno visibili. E chi applica le regole del gioco non è meno
una pedina alla mercé dei pochi eletti che quel gioco lo vogliono per il
proprio piacere: sono una piramide gerarchica di senza volto e senza voce che
viene eliminata tanto quanto i giocatori stessi, se infrangono le regole o
mostrano una qualunque identità fuori dal sistema. Politicamente è una metafora
pungente. Qui, piuttosto, a differenza della vita, si ripete più volte, tutti
sono sullo stesso piano, nessuno può godere di vantaggi rispetto agli altri –
una sottotrama di due puntate sul commercio di organi rimarca questa etica.
456 persone partecipano
nei 6 giochi previsti. Il protagonista principale di questo survival game è Seong Gi-hun (Lee
Jung-jae), a cui viene assegnato proprio il numero 456, che deve una fortuna
agli strozzini, e vuole potersi prendere cura della madre diabetica che ha
bisogno di un’operazione e della figlioletta di 10 anni, che vive con la sua ex
da cui lui è separato e con il patrigno. Cho Sang-woo (Park Hae-soo), numero
218, è un suo caro amico d’infanzia: a capo di una società di investimenti, è
ricercato dalla polizia per appropriazione indebita. Kang Sae-byeok (Jung
Ho-yeon), numero 67, è una ventenne il cui fratellino è in orfanatrofio, una
nordcoreana che cerca di farsi raggiungere dai genitori. Oh Il-nam (Oh
Yeong-su), con il numero 1, è un anziano che ha comunque un tumore al cervello
che gli lascia poco tempo da vivere, e non ha per questo nulla da perdere. Abdul Ali (Anupam Tripathi), con il numero
199, è un immigrato pakistano che non riceve uno stipendio da mesi, ma deve
mantenere la moglie e il figlio. Jang Deok-su (Heo Sung-tae), con il numero
101, è un gangster che deve dei soldi a dei filippini. Han Mi-nyeo (Kim
Joo-ryoung) dice di essere una povera madre nubile (ma la sua backstory non la
vediamo).
Il gioco è controllato da
un Frontman (Lee Byung-hun), che indossa una maschera nera, e da un elevato
numero di guardie che indossano delle tute rosse e delle maschere con il
simbolo di un cerchio, un triangolo o un quadrato a seconda del loro grado,
figure geometriche che sono diventate anche il simbolo del programma, che
riprendono le lettere del titolo scritte in coreano. Fra loro si è infiltrato
un poliziotto Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon) che è alla ricerca del fratello
scomparso.
Scritto e diretto da Hwang Dong-Hyuk, questo survival thriller è tanto violento
quanto pregnante. Non è raro vedere che si spara un colpo alla testa a
bruciapelo a un personaggio. Mi è tornata in mente Buffy, di come avevano deciso di far morire i vampiri
polverizzandoli quando vengono impalettati, sia perché fa effetto vedere
cadaveri insanguinati, sia perché poi c’è sul set molto da pulire. Lì quella
scelta è stata intelligente, qui l‘impatto è in parte anche andare nella
direzione opposta. E i cadaveri finiscono in bare che sono infiocchettate come
pacchi regalo. I giochi di sopravvivenza sono estremamente facili da seguire
per lo spettatore, ma molto intelligentemente congegnati (un buon esempio è
“VIPS”, 1.07) spremendone ogni possibilità drammatica, e il vero fulcro poi di
fatto è sui rapporti umani e sul dramma che i personaggi vivono, e in questo
senso emblematica è “Ggambu” (1.06), termine che sta a indicare una sorta di
“amico per la pelle”, in cui proprio amicizia, altruismo e fiducia sono sotto i
riflettori, in un gioco con le biglie che spezza il cuore. Quello a cui
assistiamo sotto al gigante porcellino trasparente che si riempie ulteriormente
di banconote a mano a mano che diminuiscono i giocatori in questa sfida letale
è l’umanità di ciascuno. Interessante è anche il discorso che la serie imposta
sui bias cognitivi e sull’euristica in decisioni, giudizi e comportamenti, un
leit motiv nei dialoghi fra i personaggi. Si vedono sofferenza, empatia,
generosità, calcolo. Ugualmente intensa (1.07) è la riflessione sul potere e
quello che è concesso e sull’anonimato. Poi io non sono competente a sufficienza
da argomentare qui in proposito, ma dal momento che viene inquadrato il testo
“La Teoria del Desiderio” di Lacan (1.02) non è un grande salto di
immaginazione pensare che la tematica del desiderio venga esplorata e con
quella cornice di riferimento.
Un grande altro elemento
di impatto è quello estetico. Dai costumi – che siano le tute da ginnastica dei
giocatori con le candide scarpe Vans tornate in auge, o quelle rosse delle
guardie con i simboli geometrici sulla maschera - che sono sia immediatamente
riconoscibili e di impatto, e hanno fatto ricordare La Casa di Carta e The
Handmaid’s Tale, sia praticamente pronte per merchandise di facile vendita.
Alla scenografia: il contrasto fra i pastellosi labirinti di scale – sono l’unica
ad aver pensato alla litografia “Relativity”
di Escher? - e la crudezza delle
esperienze a cui conducono, il dormitorio, la Corea in bilico fra modernità e tradizione,
le postazioni dei VIP fatte anche di corpi umani che diventano mobili o
sculture di carne, dipinte da diventare all’occhio oggetti come altri (qui
un esempio). E la capacità di coniugare la specificità locale con l’appeal
internazionale, alimentando l’Hallyu.
Parte del piacere per lo
spettatore a questo punto è partecipare alla febbre collettiva e al fandom che
si lancia in tutta una serie di attività paratestuali collegate – io ammetto di
voler provare presto a fare il dolce dalgona, mostrato ne “L’uomo con
l’ombrello” (1.03).
Un simile successo per questa serie nessuno lo aveva previsto: la BBCnews riporta (qui) che, secondo quanto riferito dalla piattaforma di streaming, nell’arco di 25 giorni dal debutto Squid Game è stata assaggiata da 111 milioni di utenti. E addirittura Damon Lindelof (Lost, The Leftovers, Watchmen) nella sua pagina ufficiale di Instagram (qui) ha commentato che la serie è perfino meglio di quello che tutti dicono. Sempre la BBC scrive (qui) che alcuni fan che parlano coreano si sono però lamentati dei sottotitoli in inglese, che non avrebbero una traduzione fedele, e in giro ho sentito lo stesso per lo spagnolo. Sarei curiosa di sapere per l’italiano, anche se io personalmente ammetto che per pigrizia, pur amando il suono del coreano, ho seguito la serie doppiata in inglese.
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