Non è una visione facile quella The State, il drama in 4 puntate del canale inglese
Channel 4, perché mostra una realtà distopica che purtroppo non è uno
scenario di fantasia. Ma se non ci si limita alla prima puntata, e si seguono i
percorsi dei personaggi fino alla fine, la visione di questa creazione di Peter
Kosminsky (Wolf Hall) è appagante e rivelatoria.
Siamo nel 2015 e alcuni cittadini britannici musulmani decidono di
trasferirsi nella città siriana di Raqqa per unirsi al al-Dawla al-Islāmiyya, ovvero allo Stato Islamico. Jalal (Sam Otto) lo fa per seguire le
orme del fratello che pensa sia stato un martire della causa, ma poi scopre una
realtà diversa (che illustra come la verità sia molto più complessa); con lui
va anche il suo amico Ziyad (Ryan McKen); l'adolescente Ushna (Shavani
Cameron) sogna di diventare “una leonessa fra leoni”; la dottoressa Shakira
(una eccellente Ony Uhiara), madre single del giovane Issac, crede nella causa,
e spera di poter usare sul campo le proprie capacità mediche. Le è stato detto
che poteva farlo, finché Umm Walid (Jessica Gunning), la convertita americana
che riceve le donne e che chiama tutti “tesoro”, non le esplicita che in realtà
dipenderà dal volere del suo futuro marito, a cui sarà sottomessa.
Nella prima puntata vediamo i protagonisti passare il confine dal sud-est
della Turchia, e venire accolti. Vengono subito spiegate loro le regole:
vengono fotografati, non possono usare il telefono, le donne devono rimanere
sempre interamente coperte tranne gli occhi in presenza di uomini (possono
essere se stesse solo quando sono in compagnia di altre donne), non possono
rimanere single quindi devono cercarsi presto un uomo, che dal canto suo può
avere più di una moglie. Seguono l’addestramento e la preparazione, e l’indottrinamento,
con roghi di libri e spari di mitra. Si impara che diventare un dunyah,
un martire, è desiderabile - e le donne al cui marito tocca questa sorte
vengono fatte le congratulazioni, oltre che consegnata una somma di denaro. Lo
scopo ultimo è quello di provocare l’Occidente perché solo nell’“ora più nera” loro
potranno prevalere. Alle donne viene detto che il loro compito non è in prima
linea, osservando, senza ironia, che “che cosa potete fare che gli uomini non
possano fare meglio?” (1.01). Il pilot si chiude con il giuramento dei nuovi
arrivati, con un’aria quasi di festa per le “sorelle” fra loro e i “fratelli”
fra loro. Da qui in poi c’è una cruda quotidianità di brutalità e orrori che
fanno vedere la causa per quella che è, mostrando la de-umanizzazione in atto,
e portando al crollo delle illusioni per ciascuno di loro.
Il primo elemento da notare è che i protagonisti principali (Jalal, Ushna e
Shakira) sono mostrati non come mostri ma come persone “normali”, umane. Le
caratterizzazioni di ciascuno sono estremamente tridimensionali. Una critica
che è stata mossa, fondata, è che si scava poco sulle ragioni che li hanno
spinti a fare quella scelta così drastica. Un elemento in comune è un rapporto
abbastanza lasso con la propria fede perché, a quanto riporta l’autore, gli
studi mostrano che più profonde sono la conoscenza e la comprensione
dell’Islam, meno probabile è che le persone intraprendano questo tipo di
viaggio. Quello che li spinge è più il senso di isolamento che vivono nella
propria vita, la mancanza di una comunità dedicata a una causa che trovano qui
(RadioTimes) E ricerca gli autori ne hanno fatta molta per questa serie: il team ha
trascorso 18 mesi di indagine meticolosa per ricostruire la vita degli
jihadisti britannici e delle donne del Califfato, incluso parlare con persone
che la scelta di andare (e tornare) l’hanno fatta sul serio nella vita.
Uno degli aspetti più pregnanti e autoevidenti è quello della misoginia:
intensa, obliqua, pervasiva, reiterata, nel domestico e nel sociale, nel microscopico
e nel macroscopico. Viene in mente in parallelo The Handmaid’s Tale in
più di un’occasione. E si mostra in modo molto chiaro come per perpetuare
questa concezione sia necessaria la collaborazione delle donne stesse. Sono
loro le prime a condannare le altre donne, se una ha il velo troppo corto, o il
vestito troppo aderente o se sono in un luogo pubblico senza il proprio muharam, il proprio guardiano maschio (1.02).
E una persona da sola non fa molto, perché anche l’educazione dei figli è
sottratta alle madri e non possono essere al comando di quello che accade loro
(come succede con Shakira e Isaac e il percorso del piccolo). Gli uomini che
provano a contrastare questo paradigma, la pagano personalmente in modo molto
caro (il dottor Rabia, il farmacista Sayed, Jalal).
Le realtà che vengono mostrare, in modo più o meno diretto, oltre a quella
della repressione delle donne, sono molte: decapitazione, fustigazione, stupro,
schiavitù sessuale, bombardamenti suicidi, omicidi, persecuzioni, poligamia,
bambini soldato, omofobia, indottrinazione, tortura, pedofilia, video
terroristici dell’Isis, lavaggio del cervello, intimidazioni, segregazione di
gender... Le crudeltà non mancano, ma la telecamera non vi indugia. Ci sono
momenti di umanità (il medico che Shakira vuole sposare, la schiava e la sua
bimba che Jalal compra per evitare loro di peggio, il proprietario del negozio
che ha fatto scappare la moglie…). Sono piccole oasi nel deserto. Per capire
quanto agghiacciante sia quel mondo, (ATTENZIONE SPOILER) basta vedere i
combattenti dell’ISIS che comprano schiave sessuali fra le prigioniere come da
un mercato del bestiame (1.03), o una stanza piena di cadaveri di donne
stuprate e mutilate, coperte da grandi lenzuoli, ma scoperte solo per far
intravedere l’orrore, o sentire che a Shakira viene chiesto di asportare per il
trapianto entrambi i reni dei nemici feriti in battaglia (1.03), o basta
in fondo anche solo l’immagine di un gruppo di ragazzini di poco più di 10 anni
che giocano a pallone (1.04), e la palla è la testa di un uomo appena
decapitato, sul cui corpo alcuni compagni si scagliano col pugnale.
Diversi termini arabi vengono lasciati in originale e in sovrimpressione
appare la parola con l’equivalente significato in inglese, un po’ come si
farebbe in un libro che ha una legenda alla fine. Una bella scelta perché aiuta
a creare un mondo a parte, permettendo allo spettatore di capire.
Il Daily
Mail ha accusato la serie di glorificare l’Isis, definendo la serie
veleno e accostandola ai film di reclutamento nazista degli anni ’30, e in
qualche modo colpevolizzandola di giustificare l’estremismo, ma questa è tutt’altro
che un’apologia, semmai l’impatto delle barbarie mostrate ha un valore
deterrente. Ci sono delle scene che sono effettiva propaganda dello Stato
Islamico, ma è evidente che serve a dare una rappresentazione realistica, come
nota ben impressionato Charlie Winter, ricercatore senior al Centro Internazionale
per gli Studi sulla Radicalizzazione del King’s College a Londra (The
Guardian). Che i foreign fighters che seguiamo si siano uniti a una
setta che promuove la morte è dolorosamente lampante.
La serie è per ora inedita in Italia.
Nessun commento:
Posta un commento