Il più delle volte la
Emily di Dickinson, la rivisitazione
in chiave moderno-adolescenziale della vita della ben nota poetessa, sembra la
rappresentazione di una ragazzetta viziata americana moderna e nulla di più. Voglio
dire, ci vuole qualcosa di più di esclamare un “let’s get this party commenced”
(1.03) invece di un “let’s get this party started” – ovvero usare un verbo più
obsoleto per esprimere “che la festa abbia inizio” - per trasportarci in
un’epoca passata.
Mi rendo conto
ovviamente che è parte dell’obiettivo: mostrare l’attualità dell’esperienza
dell’autrice alle generazioni contemporanee, andando al cuore della sua essenza. Mi
chiedo però perché Alena Smith (The
Affair), l’ideatrice, non abbia pensato a un qualche escamotage per rendere
credibile la commistione passato-presente invece di stravolgere la realtà
dell’epoca: che so, prendere una giovinetta odierna che sta studiando
letteratura e farle fare dei voli di fantasia immaginandosi come l’eroina della
penna. Almeno si evitava la sensazione di ragazzine d'oggi che si mettono in
costume per gioco. Magari sono io che ho idee più restrittive rispetto a quello
che la realtà era a quel tempo, ma la mia impressione è che si mostri il
comportamento di quelle pulzelle come all’epoca sarebbe stato quello di donne
di bordello, non di giovani di buona famiglia, come si suppone siano quelle
rappresentate. Proprio come la mentalità su queste cose sia cambiata nel tempo,
e quali fattori hanno contribuito al cambiamento, e come studiarlo ci possa
aiutare nell’oggi, ha un ruolo filosofico-politico significativo. Con questo
genere di approccio, simili riflessioni vengono cancellate, ed è un delitto, la
più grave mancanza di questa serie, che per il resto è accuratamente ricercata
e cosciente della realtà.
Siamo in Massachusetts,
nel 19° secolo. Emily (Heilee Stenfeld) è una teen-ager – questo stesso termine
sarebbe inappropriato all’epoca, ma vista la poetica dell’ideatrice un
anacronismo da parte mia ci sta -, ed è una ribelle che aspira a fare la
poetessa. Ha molto talento, ma è osteggiata dal padre Edward (Toby Huss) che
ritiene che le donne non debbano scrivere, ma dedicarsi solo ad attività
domestiche, alle quali la madre Emily (Jane Krakowski) la sottomette. La loro è
una famiglia distinta, conosciuta in città da generazioni, e l’essere
pubblicata porterebbe disonore, nella prospettiva del genitore, tanto
più che ha ambizioni politiche. Ha una sorella più giovane, Lavinia (Anna
Barishnikov), che ha testa solo per i ragazzi, ed un fratello più grande, Austin
(Adrian Enscoe) che è fidanzato con Sue (Ella Hunt), un’orfana piena di debiti,
che è la migliore amica di Emily. Di più, fra Emily e Sue c’è un rapporto
saffico. A corteggiare Emily c’è un compagno di scuola che la apprezza moltissimo,
George (Samuel Farnsworth), ma lei lo disdegna mostrando invece apprezzamento
per un segretario del padre, Ben (Matt Lauria, Parenthood).
Con puntate ispirate
ogni volta a dei versi di una lirica, che fungono anche da titolo, e che
appaiono periodicamente sullo schermo come fuggevoli scritte dorate, i temi che
si affrontano sono rilevanti allora come ora: la propria vocazione, come
sviluppare e far sentire la propria voce e il proprio autentico io, la poesia, il
ruolo nella società e il giudizio della società, l’essere donna e la
femminilità, l’essere soli vs. sposarsi, la sessualità, l’ambientalismo, la
morte… Quest’ultima è rappresentata come un personaggio a tutti gli effetti, in
carne e ossa (Wiz Khalifa), in momenti fortemente visionari, come quello affascinante
della season finale (1.10) in cui la protagonista
immagina il proprio funerale e in cui compare un altro di questi ricorrenti
personaggi di fantasia, l’Ape (Jason Mantzoukas), delle dimensioni di un umano
adulto.
Si nota un certo taglio
umoristico, su cui volutamente si preme l’acceleratore. La madre restrittiva
che imporne rigide regole alle figlie viene fatta esprimere con un tono
iperbolico quasi da sit-com nel raccomandarsi alle figlie di “pulire
costantemente” casa mentre lei non c’è. Non è un caso, credo che ad
interpretare Henry David Thoreau, che Emily va a trovare sperando di
ingaggiarlo come sostenitore a favore della sua causa a che non venga abbattuto
l’albero preferito della sua tenuta per farvi passare una ferrovia (1.02), sia
stato assunto un comico, John Mulaney. La storia, quella vera, ci racconta di un
uomo solitario e frugale sulla carta, ma che poi nella realtà si faceva
ampiamente mantenere dalle donne di famiglia. Qui hanno toni esplicitamente
comici la madre che passa col cesto a ritirargli la biancheria da lavare e la
sorella che passa a portargli i suoi dolcetti. Lo stesso hanno
fatto con Louisa May Alcott (interpretata da Zosia Mamet di Girls), invitata a un pranzo di Natale
(1.08), fresca della sua prima pubblicazione, ritratta come una romanziera
unicamente interessata ai soldi, e pronta a tavola a discutere possibili idee
letterarie fra cui quella di Piccole
Donne che la renderà famosa, e quella che sarà il Moby Dick di Melville, che lei prontamente respinge come noiosa. L’irrisione giocosa qui è indubbia, ma nel
complesso il tono della serie sembra indeciso, sbagliato. Forse semplicemente
non convince me. Almeno non del tutto, perché contemporaneamente, con la sua
verve, è molto gustosa.
Non sono sicura di
condividere moralmente, per così dire, l’esperimento di narrazione biografica,
ma sono disposta a raccoglierlo come una poetica follia. In questa prospettiva,
non poso negare che sia riuscita. Non
sorprende che sia fra le serie più richieste della neonata AppleTV+, quando era
una delle debuttanti da cui ci sia aspettava di meno.
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