martedì 5 gennaio 2021

BRIDGERTON: "Gossip Girl" incontra Jane Austen

È un incrocio fra Gossip Girl e Jane Austen la goduriosamente romantica Bridgerton (rilasciata da Netfllix il giorno di Natale), tratta dal ciclo di romanzi rosa di grande successo di Julia Quinn, ed in particolare dal primo volume “Il Duca e io” (che diventa qui il titolo del quinto episodio). Siamo nell’Età della Reggenza, quindi nell’arco fra il 1811 e il 1820, e specificatamente nel periodo del 1813 in cui le debuttanti dell’alta società vengono presentate a corte. I Bridgerton sono una famiglia inglese, composta da otto figli, quattro maschi e quattro femmine, che hanno l’iniziale del nome in ordine alfabetico per età, e dalla loro madre vedova. La prima stagione è dedicata a Daphne (Phoebe Dyenevor), la più vecchia delle sorelle, e alla sua appassionata storia d’amore con il Duca di Hastings, Simon (Regé-Jean Page), il più desiderato fra gli scapoli. Anche i familiari hanno rilievo nella storia, così come la famiglia Featherington, con le tre figlie, e la temuta scrittrice misteriosa, Lady Whistledown, in originale con la voce di Julie Andrews e in italiano di Melina Martello,  che, proprio come in Gossip Girl, rivela gli scandali e i pettegolezzi in una periodica pubblicazione che attira la curiosità di tutti e la cui identità viene rivelata (ma solo al pubblico a casa, non ai personaggi intra-diegesi) nell’ultimo episodio.

Superati i primi dieci minuti di messa in onda, in cui la narrazione mi pareva troppo smaccata, ho apprezzato questa serie, di cui mi auguro future stagioni dedicate agli altri fratelli, che indossa i propri riferimenti e influenze con consapevolezza e gusto. A momenti ha avuto il sapore di una favola e di una soap opera, e in particolare penso alle vicende dei Featherington o alla figura del padre del Duca, e il gusto naturalmente di un romanzo rosa, visto il materiale d’origine, e la sua forza è stata proprio quella di conoscere bene i cliché dei vari generi attigui, sapendo quando usarli e quando distanziarsene. Li ha irrisi, evidenziandoli, e penso in particolare alle scene in cui i protagonisti commentano i comportamenti di alcune dame e gentiluomini (gli sguardi, i finti svenimenti…), così rivelando le convenzioni e i mores della società dell’epoca, ma al contempo li ha utilizzati senza ritegno (i giuramenti, il duello, i balli…), rinnovandoli anche. Scenografia e costumi sono stati mozzafiato. Il trucco, specie maschile, l’ho trovato un po’ troppo carico, ma è un peccato veniale. 

Questa creazione di Chris Dan Dusen è riuscita anche ad elevarsi dai propri modelli, mostrandosi moderna e intelligente, lì dove ha constatato con realismo come di fronte all’apparente romanticismo ci fosse una pressione inaudita per le giovani donne ad essere il “diamante della stagione”, a trovare marito come unico modo di sopravvivenza, e lì dove con altrettanta precisione ha mostrato come il mantenere la virtù fosse un costo non indifferente non solo per le giovani donne coinvolte, ma per le loro famiglie tutte, che potevano esserne onorate o disonorate, e per gli uomini che le avevano sotto la propria tutela. Ne andava letteralmente della vita, in qualche caso. La politica dei rapporti interpersonali e di coppia come transazione economica è emersa a ogni piè sospinto, da frasi come il pretendente che dichiara che se intende comprare un cavallo non lo chiede all’animale, ma al proprietario, quando ci si rivolge al fratello per avere la mano di Daphne, alla indicazione di “mercato matrimoniale” (1.08) per indicare il senso delle varie soirée, promenade e balli a cui sono tenuti a partecipare i personaggi.

Non si è totalmente cinici, si aspira all’amore che si riconosce come un bene raro, ma si riflette su che cosa faccia un buon matrimonio, talvolta un vero “campo di battaglia” (1.03), arrivando alla conclusione che è una solida amicizia di base che tiene unite le coppie. E solitamente in questo genere di narrazioni le nozze sono il premio ultimo, dopo di che “vissero per sempre felici e contenti”. Non qui: la cerimonia nuziale (1.05), sfarzosa ma ridotta a pochissimi momenti essenziali, non è l’apice, né il traguardo a cui si giunge superati numerosi ostacoli. È solo una tappa, fra le tante di un percorso accidentato, nella consapevolezza che le relazioni sono sempre in fieri, e nella riflessione su questo il rapporto madre-figlia ha avuto bei passaggi.

Il ruolo del vil denaro e dello status, così come dei gender issues, escono dalla bocca dei protagonisti di continuo e danno spessore ideologico piuttosto esplicito alle vicende, così come c’è una pregnante riflessione sul sesso. L’ignoranza in cui erano tenute le giovani donne è un liet motiv che si rivela la spina dorsale della storia, ed è stata declinata ora come occasione di seduzione e intimità - Simon che chiede a Daphe se si tocchi e lei che viene mostrata poi masturbarsi (1.03) sono stati da applauso, sia per la loro deliziosità nella costruzione della relazione fra i due, che per la pregnanza valoriale – ora come ostacolo alla felicità della coppia - il coito interrotto di Simon ai danni dell’ignara neosposa è stato emblematico (1.06). Se questa serie è in una certa misura “l’educazione di Daphne Bridgerton”, come si è espresso l’ideatore (EW), è anche appropriatamente l’educazione sessuale della giovane donna. Le scene di sesso sono davvero sexy, un piacere da guardare, e anche qui, come era successo per Normal People, si è usato sul set un coordinatore di intimità, una figura emersa negli ultimi tempi che si sta rivelando molto importante.

Intelligente è stato anche  il modo di mostrare come le donne dell’epoca, fortemente ristrette nelle proprie libertà, abbiano usato come arma quello che avevano a disposizione, e in questo caso proprio il gossip, che lunghi dall’essere solo qualcosa di frivolo per gente che non ha nulla da fare, è stato uno strumento di  potere e liberazione e difesa (1.02). E attraverso la parola si costruisce anche la bellissima gioiosa amicizia che si mette in scena fra due delle protagoniste femminili, Eloise (Claudia Jessie) e Penelope (Nicola Coughlan), due fra i personaggi più riusciti.  

Questa è stata la prima scripted series per Netflix targata Shondaland, ovvero la casa di produzione di Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy, Scandal) che con la piattaforma di streaming ha stretto un contratto da 150 milioni di dollari. Sebbene questo programma non sia scritto da lei (per quello dobbiamo aspettare Inventing Anna, il cui atteso debutto è previsto per quest’anno), si sente ugualmente la sua sensibilità, ed in primis con un casting inclusivo con molti attori BIPOC, come si dice ora  - che sta per Black, Indigenous and People of Color, ovvero Neri, Indigeni e Persone di Colore -, nel ruolo di nobili britannici, in un’epoca in cui presumibilmente non ce n’erano altrettanti. Ci è proprio domandati: è storicamente accurato? Alcuni storici suggeriscono che ci siano prove che nell’aristocrazia britannica ci fosse sangue nero (in proposito, volendo, si legga questo articolo del Post), ma in realtà è poco significativo. Non è un documentario, e la produttrice esecutiva Betsy Beers spiega come non sia un casting daltonico, ma hanno cercato di immaginare la storia e il mondo nel modo in cui volevano vederlo (Entertainment Weekly), nello stesso modo in cui sono state prese licenze poetiche nelle musiche scelte o nell’abbigliamento (e su questo si legga su Vogue l’intervista alla costumista).

Se mi calo per un momento dei panni di Lady Whistledown, e faccio un piccolo volo pindarico metatestuale, non posso che osservare che le debuttanti in società sono le attrici alle audizioni, e che la regina Charlotte (Golda Rosheuvel), nera, è la controfigura di Shonda Rhimes: una malignità senza un fondamento, da parte mia? Scherzi a parte, a meno di non considerare “storia rosa” alla stregua di una parolaccia, e anche però nei limiti di quell’etichetta, Bridgerton è per la gran parte un vero piacere.  

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