Ne avrei volute ancora
di puntate della quarta stagione di The
Crown. Non ho avuto questa sensazione con le stagioni precedenti, ma con questa mi sembra che abbiano
galoppato, forse perché è un periodo più vicino ai giorni nostri (siamo negli anni
’80), di cui tutti conosciamo qualcosa
almeno un po’, e quindi ipotizzo che sia questa la ragione per cui mi è
sembrato scorrere troppo in fretta. È stata una stagione
molto più femminile poi, dominata, oltre che dai soliti personaggi, da Margaret
Thatcher (Gillian Anderson) e Lady Diana (Emma Corrin), entrambe in modo
diverso delle outsider rispetto al mondo della Corona. L’arrivo della seconda era
molto atteso già al debutto, e entrambe le attrici hanno dato delle
interpretazioni molto convincenti. Hanno studiato i manierismi delle
controparti della vita reale, ma non ne è mai uscita una parodia.
L’ethos di quel mondo, e
quello che la serie cerca di dimostrare stagione dopo stagione, è ben
incapsulato dalle parole del principe Filippo
(Tobias Menzies) a Lady Diana, in chiusura: tutto è sacrificabile sull’altare
della regina. Sul piedistallo c’è lei e chiunque altro deve solo servire le sue
esigenze. E questo si vede sia che si rifletta su Carlo (Josh O’Connor) che
deve cercare una moglie adatta al ruolo, sia che si scopra con Margaret (Helena
Bonham Carter) di alcune parenti tenute nascoste perché affette da ritardo
mentale che, di causa genetica, poteva mette in cattiva luce gli eredi o la si
veda che chiede una sola cosa alla sorella, avere un ruolo di maggior rilievo
per potersi sentire utile, e riceverne in cambio che invece di aumentarle i
doveri le vengono diminuiti ora che uno degli eredi diretti è maggiorenne.
La riflessione è
politica e istituzionale, e non mancano alcuni momenti storici salienti
dell’epoca, come l’attentato dell’IRA che è costato la vita a Lord Mountbatten
(Charles Dance) o la guerra nelle isole Falkland, ma è sempre filtrata dagli aspetti personali. Quando Carlo e Diana
rilasciano un’intervista insieme, un giornalista commenta che sembrano molto
innamorati. Carlo commenta “qualunque cosa significhi essere innamorati” (cosa
effettivamente detta da Carlo nell’intervista riprodotta). Una chiosa così
triste a quello che gli abbiamo visto vivere, e nerbo di tutta la stagione, fa
riflettere sul tema dell’amore evidentemente, su che cosa sia, e su che cosa
faccia di un’unione un buon matrimonio, ma anche sulla narrazione degli eventi:
la favola del grande amore contrastato dal destino era quello fra lui e Camilla
(Emerald Fennell), quello che si è voluto vendere come fairytale con Diana era la tragedia, l’ostacolo, dove il principe
del Galles, è contemporaneamente carnefice della futura sposa ignara e vittima
del sistema e del suo senso di inadeguatezza.
Diana viene presentata
alla famiglia e passa a pieni voti quello che la serie chiama il “Test di
Balmoral” – tutti la amano -, ma viene apprezzata proprio perché non ha un vero
passato, ritengono, possono modellarla a loro piacimento. Di lei ancora non si
delinea la consapevolezza politica, ma, oltre ai problemi di bulimia - e la serie avverte con una scritta prima
dell’inizio delle puntate lì dove ci saranno scene che ritraggono un disturbo
alimentare -, la sua profonda solitudine e infelicità. Oltre che la
consapevolezza arrivata abbastanza presto dell’ingombrante terza incomoda di
Camilla, vero amore del marito. La bolla della sua illusione scoppia abbastanza
presto.
E la regina viene di
fatto messa a confronto con due donne molto diverse fra loro. Nell’incontro con
la Thatcher, Elisabetta ripensa anche al proprio rapporto di madre. In 4.04,
“Favourites”, quando si perdono le tracce del figlio della Prima ministra
durante il rally della Parigi-Dakar, la regina convoca a uno a uno i propri
discendenti perché si rende conto che sa piuttosto poco di loro. Una regnante
nella sua turris eburnea viene messa a contatto con il diverso background
della Lady di Ferro, che ha origini umili. Lei e il marito, invitati a cena, si
rendono conto presto di essere manchevoli nel rispetto di molte regole non-dette
della nobiltà, e per questo in parte guardati con sufficienza. Già il
maschilismo della politica conservatrice, che le fa dichiarare che trova le
donne “troppo emozionali” per i ruoli di potere, non le aiuta a creare un
legame, ma uno scontro sul tema dell’haparteid, in cui si vedono su fronti
opposti, rischia di mandare in crisi la tradizione di imparzialità sempre
adottato dalla coronata. Si evidenziano anche i punti di contatti però, come l’etica
del lavoro, ad esempio. La presenza di Diana, molto più calorosa e umana, fa
risaltare la freddezza della Windsor: l’amorevolezza e la possibilità di
manifestare i propri sentimenti, così come ambizioni e desideri sono lussi non concessi. O
non si ha sufficiente visione per vederli come un asset, una risorsa, invece che una mancanza. La distanza di
Elisabetta II dalla gente comune è emersa anche da una puntata intensa come
“Fargan” (4.05), dove un uomo separato dalla moglie che ha perso il lavoro e
viene allontanato dai suoi bambini si introduce furtivamente nella sua camera a
Buckingham Palace per parlarle, eludendo la
sicurezza.
La creazione di Peter
Morgan rimane sempre molto elegante e misurata, pur nella sua regale opulenza, e
non scade nel gossip. Si prendono come un dato di fatto i tradimenti coniugali
dei principi del Galles, ma non ci si sofferma sui presunti contrasti fra suocera
e nuora.
The Crown rimane umanamente pregnante e stilisticamente
notevole.
Per chi fosse curioso di
approfondire l’argomento della finzione poi, la serie documentaristica, sempre
su Netflix, sulla casa reale degli Windsor, “The Royal House of Windsor”, fa da
buon complemento alla serie, con interviste di storici ed esperiti, alcuni
vicini ai diretti interessati (il
segretario personale di Lady D, ad esempio), e materiali inediti.
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