In Avenue 5, avventura comica di Armando Iannucci (Veep), siamo in un futuro in cui gli
esseri umani vanno in crociera nello spazio.
A causa di una
momentanea perdita di gravità artificiale e della morte dell’ingegnere capo, la
nave interplanetaria del titolo, di proprietà dell’egocentrico, odioso multimilionario Judd (Josh Gad), che pure è a
bordo, si ritrova molti gradi fuori rotta, e al capitano Ryan (Hugh Laurie, House), che presto si rivela essere
qualcuno di diverso da quello che tutti pensano che sia, tocca l’amaro compito
di annunciare che il previsto viaggio di 8 settimane intorno a Saturno, si
prolungherà: ci vorranno addirittura circa tre anni per tornare sul pianeta
Terra. Equipaggio e passeggeri devono tenere la calma e imparare a convivere,
ma sono arrabbiati.
Se le sparate del
mercuriale, viziato Judd vengono gestite alla meno peggio dalla sua assistente
personale Iris (Suzy Nakamura), al rapporto con la clientela è preposto Matt
(Zach Woods, Silicon Valley), i cui
tentativi di calmare tutti spesso hanno l’effetto opposto a quello desiderato, e
la matura Karen (Rebecca Front) si fa portavoce delle esigenze dei passeggeri,
fra cui il suo stesso marito Frank (Andy Buckley) e la coppia in crisi Mia
(Jessica St. Clair) e Doug (Kyle Bornheimer, Worst Week). Chi cerca di venire a capo della situazione con delle
soluzioni sono, sulla Terra, Rav Mulcair (Nikki Amuka-Bird), a capo della
missione e sempre più stressata, anche per il costante scarto di tempo in cui
avvengono le comunicazioni fra lo spazio e la base, e sulla nave la giovane
ingegnera Billie (Lenora Crichlow, A to Z),
anche se il suo contributo vorrebbe poterlo dare anche l’ex-astronauta Spike
(Ethan Phillips). Ad alleggerire la tensione ci prova il giovane cabarettista
Jordan (Himesh Patel).
Questa comedy inizialmente delude, ma prende vigore
a mano a mano che procede. E anche se è facilmente interpretabile in modo
metaforico-politico – da Judd a Trump il passo non è lungo – non è sempre del
tutto chiaro quale sia l’obiettivo della satira. Diversi dei personaggi (Judd,
il capitano Ryan e Matt, in particolare) incarnano l’ossimoro fra quello che
sono e quello che professionalmente dovrebbero essere chiamati ad essere: sono
una farsa, l’assurdo di una società per cui è sempre più difficile distinguere
realtà e apparenza – a questo proposito la season finale (1.08), in cui
ciascuno reagisce in modo diverso all’ipotesi che la situazione in cui si trovano
sia una simulazione, è emblematica. E una delle tematiche più interessanti che
sono emerse è quella della competenza, e di come se non è esteticamente
appetibile viene tenuta nascosta, e si premia invece la facciata più
accattivante, anche se nasconde inettitudine.
Forse complice il fatto
che in quarantena ho seguito la serie, in quella prospettiva si legge
facilmente: persone bloccate in modo imprevisto in uno stesso ambiente, e
persone a cui tieni che sono distanti. Con un tocco di antropologia sociale non
indifferente (non credo di averne visto uno su questo principio dai tempi di Caprica),
il capitano, il cui matrimonio viene
messo in crisi dalla situazione, è sposato non con una, ma con due persone – e i
coniugi che gli chiedono il divorzio sono sulla terra.
Occasionalmente
caustica, l’ilarità si potenzia nel tempo, e non solo perché conosciamo di più
i personaggi, ma perché si riesce a costruire mungendo il più
possibile umorismo da una stessa idea. Un esempio concreto è il fatto che ad un
certo punto la nave deve espellere la cacca dei passeggeri che finisce, per
effetto della gravità creata dal veicolo aerospaziale stesso, a rotearle
intorno. La merda è davvero terreno fertile per battute e situazioni che
montano con il tempo in vis comica – e causa di risate non solo scatologiche,
ma anche allegoriche – e che mostrano l’abilità degli autori che, appunto, da
una occasione iniziale continuano a cavare spunti.
Scrive poi bene Troy Patterson sul New Yorker, che richiama ora l’Aereo più pazzo del mondo, ora Pirandello, Star Trek e Love Boat, quando dice che “(i)
personaggi consumano un sacco di aria riciclata per criticare l’uno la dizione
dell'altro, a lamentarsi del tono, a controllare le sfumature di connotazione,
a sbuffare sul "gergo", a misurare la gestazione delle pause ricche
di significato e, in generale, a trovare le figure retoriche gli uni degli
altri”. Sebbene fino in fondo non convinca del tutto, non è sicuramente una
commedia di autori alle prime armi e, rinnovata per una seconda stagione, avrà
tempo di aggiustare la rotta.
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