mercoledì 26 agosto 2020

AVENUE 5: delude, ma migliora


In Avenue 5, avventura comica di Armando Iannucci (Veep), siamo in un futuro in cui gli esseri umani vanno in crociera nello spazio.

A causa di una momentanea perdita di gravità artificiale e della morte dell’ingegnere capo, la nave interplanetaria del titolo, di proprietà dell’egocentrico, odioso  multimilionario Judd (Josh Gad), che pure è a bordo, si ritrova molti gradi fuori rotta, e al capitano Ryan (Hugh Laurie, House), che presto si rivela essere qualcuno di diverso da quello che tutti pensano che sia, tocca l’amaro compito di annunciare che il previsto viaggio di 8 settimane intorno a Saturno, si prolungherà: ci vorranno addirittura circa tre anni per tornare sul pianeta Terra. Equipaggio e passeggeri devono tenere la calma e imparare a convivere, ma sono arrabbiati.

Se le sparate del mercuriale, viziato Judd vengono gestite alla meno peggio dalla sua assistente personale Iris (Suzy Nakamura), al rapporto con la clientela è preposto Matt (Zach Woods, Silicon Valley), i cui tentativi di calmare tutti spesso hanno l’effetto opposto a quello desiderato, e la matura Karen (Rebecca Front) si fa portavoce delle esigenze dei passeggeri, fra cui il suo stesso marito Frank (Andy Buckley) e la coppia in crisi Mia (Jessica St. Clair) e Doug (Kyle Bornheimer, Worst Week). Chi cerca di venire a capo della situazione con delle soluzioni sono, sulla Terra, Rav Mulcair (Nikki Amuka-Bird), a capo della missione e sempre più stressata, anche per il costante scarto di tempo in cui avvengono le comunicazioni fra lo spazio e la base, e sulla nave la giovane ingegnera Billie (Lenora Crichlow, A to Z), anche se il suo contributo vorrebbe poterlo dare anche l’ex-astronauta Spike (Ethan Phillips). Ad alleggerire la tensione ci prova il giovane cabarettista Jordan (Himesh Patel).

Questa comedy inizialmente delude, ma prende vigore a mano a mano che procede. E anche se è facilmente interpretabile in modo metaforico-politico da Judd a Trump il passo non è lungo – non è sempre del tutto chiaro quale sia l’obiettivo della satira. Diversi dei personaggi (Judd, il capitano Ryan e Matt, in particolare) incarnano l’ossimoro fra quello che sono e quello che professionalmente dovrebbero essere chiamati ad essere: sono una farsa, l’assurdo di una società per cui è sempre più difficile distinguere realtà e apparenza – a questo proposito la season finale (1.08), in cui ciascuno reagisce in modo diverso all’ipotesi che la situazione in cui si trovano sia una simulazione, è emblematica. E una delle tematiche più interessanti che sono emerse è quella della competenza, e di come se non è esteticamente appetibile viene tenuta nascosta, e si premia invece la facciata più accattivante, anche se nasconde inettitudine.

Forse complice il fatto che in quarantena ho seguito la serie, in quella prospettiva si legge facilmente: persone bloccate in modo imprevisto in uno stesso ambiente, e persone a cui tieni che sono distanti. Con un tocco di antropologia sociale non indifferente (non credo di averne visto uno su questo principio dai tempi di Caprica), il capitano, il  cui matrimonio viene messo in crisi dalla situazione, è sposato non con una, ma con due persone – e i coniugi che gli chiedono il divorzio sono sulla terra.

Occasionalmente caustica, l’ilarità si potenzia nel tempo, e non solo perché conosciamo di più i personaggi, ma perché si riesce a costruire mungendo il più possibile umorismo da una stessa idea. Un esempio concreto è il fatto che ad un certo punto la nave deve espellere la cacca dei passeggeri che finisce, per effetto della gravità creata dal veicolo aerospaziale stesso, a rotearle intorno. La merda è davvero terreno fertile per battute e situazioni che montano con il tempo in vis comica – e causa di risate non solo scatologiche, ma anche allegoriche – e che mostrano l’abilità degli autori che, appunto, da una occasione iniziale continuano a cavare spunti.   

Scrive poi bene Troy Patterson sul New Yorker, che richiama ora l’Aereo più pazzo del mondo, ora Pirandello, Star Trek e Love Boat, quando dice che “(i) personaggi consumano un sacco di aria riciclata per criticare l’uno la dizione dell'altro, a lamentarsi del tono, a controllare le sfumature di connotazione, a sbuffare sul "gergo", a misurare la gestazione delle pause ricche di significato e, in generale, a trovare le figure retoriche gli uni degli altri”. Sebbene fino in fondo non convinca del tutto, non è sicuramente una commedia di autori alle prime armi e, rinnovata per una seconda stagione, avrà tempo di aggiustare la rotta.

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