martedì 15 settembre 2020

THE MAN IN THE HIGH CASTLE: se avessero vinto i nazisti

 

The Man in the High Castle, L’Uomo nell’Alto Castello, la produzione Amazon Prime basata sull’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (La Svastica sul Sole in italiano), è una ucronia in cui le forze dell’asse hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale: gli Stati del Pacifico sono sotto il controllo giapponese, mentre la gran parte del resto degli Stati Uniti, salvo una piccola zona neutrale, sono sotto il controllo dei tedeschi. Roosevelt è stato assassinato e i nazisti hanno sganciato una bomba atomica su Washington.

 

Nelle quattro stagioni di 10 puntate ciascuna di cui si compone, il punto di forza di questa creazione di Frank Spotnitz è una trama molto solida e ben recitata: in generale la narrazione è molto appagante perché ben strutturata e ricca di colpi di scena imprevedibili che la rendono sia facile da seguire e in un certo senso entusiasmante, oltre che molto pregnante rispetto al commento che offre metaforicamente sulla realtà contemporanea. Visivamente è più ordinaria.

 

Prima sotto il potere del Führer Hitler (Wolf Muser, Santa Barbara) poi, dopo la morte di questi, di Himmler (Kenneth Tigar), seguiamo le vicende dell’Obergruppenführer delle SS, John Smith (Rufus Sewell, Victoria), che fa poi carriera, che vive inizialmente in periferia poi a Manhattan insieme alla sua famiglia, che ama molto: la moglie Helen (Chelah Horsdal) e tre figli, Thomas (Quinn Lord), membro della gioventù hitleriana, Amy (Gracyn Shinyei) e Jennifer (Genea Charpentier). Sua principale “avversaria” nel corso del tempo è la partigiana Juliana Crain (Alexa Davalos) che all’inizio delle vicende è legata a Frank Frink (Rupert Evans), il cui nonno ebreo lo mette a rischio di discriminazione, ma che viene presto intrigata da Joe Blake (Luke Kleintank), perennemente in bilico su da che parte stare. Fra i migliori amici di Juliana e Frank c’è Ed McCarthy (DJ Qualls), che avvia una collaborazione con Robert Childan (Brennan Brown), un pavido, ma astuto  antiquario che vende cimeli americani ai giapponesi. Presto la resistenza, e nella quarta stagione la BCR (Black Communist Rebellion), si fa più organizzata ed è oggetto di repressione tanto da parte tedesca quanto da parte nipponica. Su quel versante, due leader sono il Ministro del Commercio Nabosuke Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), poi una figura positiva, e l’ispettore capo della Kenpeitai di stanza a San Francisco Takeshi Kido (Joel de la Fuente), che si riscatta solo alla fine: “questi imperi per cui combattiamo sono solo castelli di sabbia. Solo le onde sono eterne” (4.08).

 

I film in possesso dell’uomo nell’alto castello del titolo, su cui da un lato i nazisti, dall’altro la resistenza cercano di mettere le mani, ritraggono versioni alternative della storia, della realtà. Se nella diegesi questo si spiega per la presenza di un multiverso, per cui in ogni universo parallelo ci sono varie alternative di noi, il senso per noi è che immaginare delle alternative alla realtà presente permette di attivarsi per cambiarla, per avere una Storia (passato condiviso) e una storia (narrazione) differenti. Vedere film cambia le menti delle persone, e questo è la precondizione perché ci possano essere dei cambiamenti, delle scelte diverse. Mondi paralleli, fra virgolette, mondi diversi sono nei fatti resi possibili grazie alle nostre scelte. Questo è il senso ultimo di quello che la serie dice: quello che accade non è nelle mani di Dio, è nelle nostre mani. E suppongo che si potrebbe fare un’analisi nei termini dei “mondi possibili” di Eco. 

 

La serie è particolarmente riuscita nel mantenere il protagonista nazista principale in una situazione ambigua. Evita di cadere nella trappola del “nazista buono”, che sarebbe un ossimoro e moralmente discutibile, tuttavia riesce a non renderlo nemmeno un irredimibile cattivo, nel momento in cui lo mostra come un uomo che, sconfitto e costretto ad accettarli per sopravvivere, non ha sempre creduto buoni i principi del Reich, salvo poi sostenerli e rendersi conto alla prova dei fatti quanto siano deleteri. E quando la sua famiglia rischia di venire compromessa dai principi, lui non mostra dubbio alcuno su che cosa sceglie: le persone amate. Contemporaneamente, facendo carriera, e volendo mantenerla, e temendo anche per la propria incolumità, non arriva a disconoscerli e a rinunciare al suo ruolo. In questo senso, la recitazione di Rufus  Sewell è particolarmente sensibile, perché infonde costantemente il personaggio della crescente consapevolezza di essere in trappola in una realtà che ha aiutato a creare e che mantiene, ma di cui vede l’obbrobrio. Questo si estende anche ad Helen, la più coraggiosa alla fine nell’interrogarsi sul che cosa siano diventati e sul cercare di arrestare questo processo che riconosce come criminale.

 

Uno degli aspetti salienti è che si guarda non al nazismo dei grandi eventi (veri o immaginati che siano), ma a quello domestico, quello della vita quotidiana delle persone comuni, di coloro che poi non lo vivevano così male perché in una situazione di privilegio rispetto a quelli braccati come topi. Questo si riflette nella messa in scena. Sebbene si evochino i grandiosi scenari del potere, la gran parte delle scene avviene in uffici, case, camere d’albergo, seminterrati, baracche…  Per certi aspetti fa più effetto vedere la madre di famiglia leggere l’etichetta di un indumento e vedere che c’è una sigla che sta ad indicare che è realizzato da mani ariane, che l’ennesima esecuzione. Sa essere raggelante, ma in questa domesticità ci si rende anche conto del perché ha potuto attecchire. E perché ignoriamo realtà altrettanto terribili intorno a noi.   

 

In maniera molto forte poi, si esamina la conseguenza della riflessione critica dei figli sui genitori. I figli vivono le conseguenze delle scelte materne e paterne, e non sono belle. Sono il seme della distruzione di quel regime, che evidentemente non può essere sostenuto. Nella seconda stagione, lo si esplicita nella scelta del figlio di John, che è idealmente imbevuto degli ideali nazisti, in uno dei twist della stagione più inattesi e coinvolgenti, forse dovrei dire sconvolgenti perché coerenti. In seguito la figlia maggiore di John in particolare comincia ad accorgersi delle menzogne, e della propaganda. Venuta in contatto con un’alternativa, vede la realtà e per quella che è. E su questo si può riflettere come sia facile mantenere dei regimi totalitaristici e dispotici lì dove non c’è permeabilità con delle alternative. Helen si rende conto che ha perso anche la figlia più piccola alla fine, perché la sua mente appartiene invece allo Stato, che le ha fatto il lavaggio del cervello. Il figlio di Takeshi Kido è considerato un eroe di guerra, ma soffre di disturbo post-traumatico da stress, e reagisce con violenza verso queste emozioni distruttive che non riesce a controllare.

 

La parte distopico-fantascitifica pure è coerente col disegno di dominio del mondo del Reich e la forza del programma sta proprio nel riuscire ha mostrare la pericolosità di certe idee nella confezione di un’avventura molto godibile.

 

Nessun commento:

Posta un commento