L’informazione
essenziale da conoscere per comprendere l’estetica della nuova serie della HBO Watchmen è che l’ideatore è Damon
Lindelof (Lost, The Leftovers), il che equivale a dire contorti e dolorosi percorsi
emozionali, allegorie visionarie, vicissitudini complesse mostrate in modo
limpido, ma in cui ugualmente non tutto è sempre chiaro, ma va bene così perché
è l’esperienza quella che conta, non necessariamente il singolo dettaglio,
anche se, se ci ritorni, scopri che ovviamente è meticolosamente studiato,
apparenti voli pindarici con rimandi fra una parte e l’altra, profonde epifanie
spirituali che distruggono e capovolgono le tue convinzioni… Chi ha familiarità
con la sua scrittura, coglie al volo la sua cifra poetica.
La serie - di che durata
potenziale nel tempo non è dato sapere fuori da una prima stagione di 9 episodi
- è una estensione dell’omonimo capolavoro a fumetti del 1987 della DC ideato da Alan Moore e Dave Gibbons (l’illustratore). È un sequel nel senso che
è un follow-up degli eventi lì narrati, ma non lo è nel senso che non è
obbligatorio essere letterati nelle vicende della carta stampata per
comprendere quello che si svolge sullo schermo, ma certamente aiuta sapere
almeno qualcosa e, come diversi critici hanno suggerito e io stessa che ne ero
digiuna ho fatto, non guasta leggersi qualche pagina di Wikipedia in proposito,
se non altro per sapere che si tratta di un’ucronia in cui gli Stati Uniti
hanno vinto la guerra del Vietnam, Nixon è rimasto presidente per 5 mandati e
ora presidente è Robert Redford. Nel 1985 un’apparente creatura aliena a forma
di calamaro ha ucciso 3 milioni di persone a New York, un evento conosciuto
come 11/2, il 2 novembre, chiaro parallelismo all’11 settembre.
Siamo a 34 anni di
distanza dagli eventi del fumetto, in una realtà in cui i poliziotti devono
girare con il volto coperto da maschere per non farsi riconoscere, dopo che
anni prima solo stati decimati dal loro nemico principale, il Settimo
Cavalleria, un gruppo terrorista di supremazisti bianchi che indossano la
maschera del vigilante Rorschach e ora sembrano voler tornare all’attacco. La
polizia si avvale anche di alcuni vigilanti autorizzati e fra questi spicca
Angela Abar (una sempre straordinaria Regina King), nota come Sorella Notte,
che aiuta il capo della polizia Judd Crawford (Don Johnson) e l’agente Wade
Tillman / Specchio (Tim Blake Nelson). Il vigilantismo mascherato, a causa dei
metodi violenti utilizzati, è altrimenti fuori legge. A capo di una task-force
dell’FBI contro questi giustizieri mascherati c’è Laurie Blake (Jean Smart, Legion), lei stessa in passato una di
loro, conosciuta come Spettro di Seta II.
Questa da parte di
Lindelof (TVs
Top 5 – ep. 44 – 25 ottobre 2019) vuole essere una “lettera d’amore” nei
confronti di Alan Moore, che tanto lo ha influenzato nella sua formazione
letteraria, sebbene questi abbia dichiarato di non approvare che i personaggi
da lui ideati vengano ripresi da altri. Questo atto di ribellione contro la
volontà dell’autore – possibile perché la proprietà intellettuale è della DC e
della Warner Bros - Lindelof la giustifica dicendosi animato dallo stesso
spirito audace di Moore stesso che a suo tempo si è appropriato di Swampman,
Superman e Batman, che pure non erano stati ideati da lui, facendone opere
notevoli. Il meta-tema dell’intera stagione peraltro è quello dell’appropriazione.
Lindelof riconosce anche
il debito nei confronti dal saggio di Ta-Nehisi Coates - ha anche cercato,
invano, di incontrarlo - apparso su The
Atlantic e intitolato The
Case for Reparations, di cui è dall’inizio imbevuta la narrazione che
debutta, con un incipit nella sala di un cinema muto, con gli incendi e
distruzione avvenuti nella vita reale di quella che era considerata la Wall
Street nera, a Tulsa, in Oklahoma, nel 1921, vicenda ripresa poi anche nella
notevole “Questo essere straordinario” (1.06) in cui Angela rivive i ricordi
del nonno dopo aver ingerito delle pillole chiamate Nostalgia - non specifico
ulteriormente in proposito per evitare spoiler, ma la regia è stata notevole.
Tutta la serie è
fortemente metaforica. È una ricerca sulle domande principali che interessano tutti
noi, ovvero chi siamo e perché ci comportiamo come facciamo e che significato
ha la vita, e in primo piano ci sono i rapporti razziali, il terrorismo, la
forza della memoria e della storia, i pregiudizi, la brutalità della polizia,
il potere, l’identità, la giustizia, la paura, la rabbia, l’eroismo, le maschere… su quest’ultimo argomento si ragiona un bel po’ - e qui i rimandi
letterari a cui si può pensare sono molteplici, dalla punta della mente mi
escono immediati Pirandello e Wilde – e quello che si è riusciti a dire sull’essere
neri, rispetto a questo, ha del sorprendente. E la spiegazione su chi è Hooded
Justice (Giustizia Incappucciata), la cui identità rimane un mistero alla fine
del fumetto, e sul come sia venuto in essere, che viene svelato qui, non solo
ha tutto il senso del mondo, ma è stata un’invenzione che si sente alla fine
come una cosa necessaria da raccontare. Idem rispetto a come è stata gestita la
questione dell’”identità umana” del dottor Manhattan. Chapeau.
Sono molto forti gli
echi di Lost. In “Little fear of
lightning – Una leggera paura dei fulmini” (1.05, con un titolo che è una
citazione da “20.000 leghe sotto i mari” di Jules Verne), che racconta la origin story di Wade Tillman/Specchio, ci
sono momenti in cui si ripensa alla botola e all’inserire i numeri, altri in
cui tornano alla memoria i video Dharma; e nella gestione del tempo di “A God
Walkes into Abar – Un dio entra in un bar” (1.08) si può ragionevolmente
ripensare alla più famosa delle puntate di Lost,
“The Constant” (4.05). Ma i riferimenti sono anche altri. Ugualmente intensa
risuona l’eredità del capolavoro del decennio The Leftovers, dall’uso della musica, al rapporto con l’universo e
con il senso del divino, dall’essere inascoltati e soli, alla fede avuta per
una vita che crolla, ai fenomeni inspiegabili, alla natura del tempo e dell’esistenza…
Nella seconda metà in
generale la serie decolla proprio. In “Un dio entra in un bar”, in cui entra in
scena il dottor Manhattan (1.08) l’allegoria è spettacolosa, la profondità
della riflessione religiosa è superlativa e i parallelismi con la Bibbia
(dall’incarnazione divina, all’annunciazione, all’amore di Dio, al messaggio
cristico, alla natura di Dio) sorprendenti. Il personaggio, come dio, non ha un’esperienza
del tempo lineare, ma vive tutto come un eterno presente. È
stato reso alla perfezione. Anche le scioccanti bizzarrie del personaggio di
Adrian Veidt (Jeremy Irons), un lord che vive su Europa, una delle lune di
Giove, con Mr Phillips (Tom Mison) e Ms Crookshanks (Sara Vickers) qui
finiscono per avere un senso.
Con la season finale, che vede in prima linea
anche Lady Trieu (Hong Chau) – e a questo proposito invito a leggere le
pregnanti osservazioni di Lindelof sulla forza di gravità narrativa, fatte su
Vulture - ogni tassello va
magicamente a posto, tutto e chiaro e inevitabilmente necessario, e impeccabile
sul piano della trama. Non è stata la mia puntata preferita, ma è sbalorditiva
per come ha saputo chiudere tutto e concordo con James Poniewozik, critico televisivo
del New York Times, che ha twittato (qui) che è
stata un finale da standing ovation
in salotto. L’ultima scena è stata interpretata da molti come un cliffhanger, e può ben esserlo, ma solo
per chi non è disposto ad accettare una chiusura in qualche modo sospesa. Per
me è stata perfetta anche quella. Se ci sarà una seconda stagione, ben venga,
ma non serve aggiungere altro, rimane completa anche così.
Fedele alla propria
essenza fumettistica e al proprio passato, ma allo stesso tempo sovversiva ed
eticamente, umanamente e politicamente rilevante per la realtà contemporanea, Watchmen è stata complessivamente
fenomenale.
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