giovedì 19 dicembre 2019

WATCHMEN: fenomenale


L’informazione essenziale da conoscere per comprendere l’estetica della nuova serie della HBO Watchmen è che l’ideatore è Damon Lindelof (Lost, The Leftovers), il che equivale a dire contorti e dolorosi percorsi emozionali, allegorie visionarie, vicissitudini complesse mostrate in modo limpido, ma in cui ugualmente non tutto è sempre chiaro, ma va bene così perché è l’esperienza quella che conta, non necessariamente il singolo dettaglio, anche se, se ci ritorni, scopri che ovviamente è meticolosamente studiato, apparenti voli pindarici con rimandi fra una parte e l’altra, profonde epifanie spirituali che distruggono e capovolgono le tue convinzioni… Chi ha familiarità con la sua scrittura, coglie al volo la sua cifra poetica.

La serie - di che durata potenziale nel tempo non è dato sapere fuori da una prima stagione di 9 episodi - è una estensione dell’omonimo capolavoro a fumetti del 1987 della DC ideato da Alan Moore e Dave Gibbons (l’illustratore). È un sequel nel senso che è un follow-up degli eventi lì narrati, ma non lo è nel senso che non è obbligatorio essere letterati nelle vicende della carta stampata per comprendere quello che si svolge sullo schermo, ma certamente aiuta sapere almeno qualcosa e, come diversi critici hanno suggerito e io stessa che ne ero digiuna ho fatto, non guasta leggersi qualche pagina di Wikipedia in proposito, se non altro per sapere che si tratta di un’ucronia in cui gli Stati Uniti hanno vinto la guerra del Vietnam, Nixon è rimasto presidente per 5 mandati e ora presidente è Robert Redford. Nel 1985 un’apparente creatura aliena a forma di calamaro ha ucciso 3 milioni di persone a New York, un evento conosciuto come 11/2, il 2 novembre, chiaro parallelismo all’11 settembre.

Siamo a 34 anni di distanza dagli eventi del fumetto, in una realtà in cui i poliziotti devono girare con il volto coperto da maschere per non farsi riconoscere, dopo che anni prima solo stati decimati dal loro nemico principale, il Settimo Cavalleria, un gruppo terrorista di supremazisti bianchi che indossano la maschera del vigilante Rorschach e ora sembrano voler tornare all’attacco. La polizia si avvale anche di alcuni vigilanti autorizzati e fra questi spicca Angela Abar (una sempre straordinaria Regina King), nota come Sorella Notte, che aiuta il capo della polizia Judd Crawford (Don Johnson) e l’agente Wade Tillman / Specchio (Tim Blake Nelson). Il vigilantismo mascherato, a causa dei metodi violenti utilizzati, è altrimenti fuori legge. A capo di una task-force dell’FBI contro questi giustizieri mascherati c’è Laurie Blake (Jean Smart, Legion), lei stessa in passato una di loro, conosciuta come Spettro di Seta II.

Questa da parte di Lindelof  (TVs Top 5 – ep. 44 – 25 ottobre 2019) vuole essere una “lettera d’amore” nei confronti di Alan Moore, che tanto lo ha influenzato nella sua formazione letteraria, sebbene questi abbia dichiarato di non approvare che i personaggi da lui ideati vengano ripresi da altri. Questo atto di ribellione contro la volontà dell’autore – possibile perché la proprietà intellettuale è della DC e della Warner Bros - Lindelof la giustifica dicendosi animato dallo stesso spirito audace di Moore stesso che a suo tempo si è appropriato di Swampman, Superman e Batman, che pure non erano stati ideati da lui, facendone opere notevoli. Il meta-tema dell’intera stagione peraltro è quello dell’appropriazione.  

Lindelof riconosce anche il debito nei confronti dal saggio di Ta-Nehisi Coates - ha anche cercato, invano, di incontrarlo - apparso su The Atlantic e intitolato The Case for Reparations, di cui è dall’inizio imbevuta la narrazione che debutta, con un incipit nella sala di un cinema muto, con gli incendi e distruzione avvenuti nella vita reale di quella che era considerata la Wall Street nera, a Tulsa, in Oklahoma, nel 1921, vicenda ripresa poi anche nella notevole “Questo essere straordinario” (1.06) in cui Angela rivive i ricordi del nonno dopo aver ingerito delle pillole chiamate Nostalgia - non specifico ulteriormente in proposito per evitare spoiler, ma la regia è stata notevole.

Tutta la serie è fortemente metaforica. È una ricerca sulle domande principali che interessano tutti noi, ovvero chi siamo e perché ci comportiamo come facciamo e che significato ha la vita, e in primo piano ci sono i rapporti razziali, il terrorismo, la forza della memoria e della storia, i pregiudizi, la brutalità della polizia, il potere, l’identità, la giustizia, la paura, la rabbia, l’eroismo,  le maschere… su quest’ultimo  argomento si ragiona un bel po’ - e qui i rimandi letterari a cui si può pensare sono molteplici, dalla punta della mente mi escono immediati Pirandello e Wilde – e quello che si è riusciti a dire sull’essere neri, rispetto a questo, ha del sorprendente. E la spiegazione su chi è Hooded Justice (Giustizia Incappucciata), la cui identità rimane un mistero alla fine del fumetto, e sul come sia venuto in essere, che viene svelato qui, non solo ha tutto il senso del mondo, ma è stata un’invenzione che si sente alla fine come una cosa necessaria da raccontare. Idem rispetto a come è stata gestita la questione dell’”identità umana” del dottor Manhattan. Chapeau.  

Sono molto forti gli echi di Lost. In “Little fear of lightning – Una leggera paura dei fulmini” (1.05, con un titolo che è una citazione da “20.000 leghe sotto i mari” di Jules Verne), che racconta la origin story di Wade Tillman/Specchio, ci sono momenti in cui si ripensa alla botola e all’inserire i numeri, altri in cui tornano alla memoria i video Dharma; e nella gestione del tempo di “A God Walkes into Abar – Un dio entra in un bar” (1.08) si può ragionevolmente ripensare alla più famosa delle puntate di Lost, “The Constant” (4.05). Ma i riferimenti sono anche altri. Ugualmente intensa risuona l’eredità del capolavoro del decennio The Leftovers, dall’uso della musica, al rapporto con l’universo e con il senso del divino, dall’essere inascoltati e soli, alla fede avuta per una vita che crolla, ai fenomeni inspiegabili, alla natura del tempo e dell’esistenza…

Nella seconda metà in generale la serie decolla proprio. In “Un dio entra in un bar”, in cui entra in scena il dottor Manhattan (1.08) l’allegoria è spettacolosa, la profondità della riflessione religiosa è superlativa e i parallelismi con la Bibbia (dall’incarnazione divina, all’annunciazione, all’amore di Dio, al messaggio cristico, alla natura di Dio) sorprendenti. Il personaggio, come dio, non ha un’esperienza del tempo lineare, ma vive tutto come un eterno presente. È stato reso alla perfezione. Anche le scioccanti bizzarrie del personaggio di Adrian Veidt (Jeremy Irons), un lord che vive su Europa, una delle lune di Giove, con Mr Phillips (Tom Mison) e Ms Crookshanks (Sara Vickers) qui finiscono per avere un senso.  

Con la season finale, che vede in prima linea anche Lady Trieu (Hong Chau) – e a questo proposito invito a leggere le pregnanti osservazioni di Lindelof sulla forza di gravità narrativa, fatte su Vulture -  ogni tassello va magicamente a posto, tutto e chiaro e inevitabilmente necessario, e impeccabile sul piano della trama. Non è stata la mia puntata preferita, ma è sbalorditiva per come ha saputo chiudere tutto e concordo con James Poniewozik, critico televisivo del New York Times, che ha twittato (qui) che è stata un finale da standing ovation in salotto. L’ultima scena è stata interpretata da molti come un cliffhanger, e può ben esserlo, ma solo per chi non è disposto ad accettare una chiusura in qualche modo sospesa. Per me è stata perfetta anche quella. Se ci sarà una seconda stagione, ben venga, ma non serve aggiungere altro, rimane completa anche così.

Fedele alla propria essenza fumettistica e al proprio passato, ma allo stesso tempo sovversiva ed eticamente, umanamente e politicamente rilevante per la realtà contemporanea, Watchmen è stata complessivamente fenomenale.

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