giovedì 5 dicembre 2019

1000° POST: che cosa ti spinge a seguire una serie?

La foto è mia. L'ho scattata al Cantor Center for Visual Arts, a Stanford (California, USA), lo scorso 18 settembre 2019. Si tratta di un pezzo di Edward Kienholz e Nancy Redding Kienholz, all'interno di una mostra che, ispirandosi a McLuhan, è stata intitolata "The Medium is the Message". Per ulteriori notizie su questo pezzo, rimando a un post scriptum al post. 

Questo è il mio millesimo post, e per l’occasione voglio dedicarlo non a un programma specifico, ma alla TV in generale. Chiedo a chi mi legge, quello che mi sono chiesta più volte io stessa: che cosa ti spinge a guardare una serie tv? Che cosa ti fa decidere di iniziarla e proseguirla, o che cosa invece di abbandonarla?

Io concepisco le serie televisive come forme di “design esperienziale”, per usare una dicitura di Maria Pia Pozzato, e comunque le vedo come un modo per dilatare il mio mondo, per avvicinarmi ad altre prospettive, e davvero ampliare le mie vedute grazie a momenti di risonanza empatica con modelli cognitivi e “patemici” in cui non necessariamente mi riconosco. 

In questo momento della mia vita, guardo pochissimi  programmi che non siano di narrativa televisiva e, con la vastità di scelta che c’è, mi capita raramente di ri-guardare qualcosa, a meno che non debba scriverci un saggio o comunque qualcosa di molto consistente. Le ragioni sono fondamentalmente che si riesce a malapena a stare dietro alle produzioni nuove, e in parte dipende dei miei problemi di salute, che mi consentono di vedere meno di quanto vorrei, per quanto più che in passato. Ammetto che mi manca il piacere e la qualità della visione che è permessa solo da reiterati approcci al materiale, che si arricchisce di sfumature dalla ripetizione in sé e per sé. Penso che ci sia molto valore nel farlo, ma me lo concedo di rado. 

Sempre la salute mi impedisce un vero binge-watching, che facevo sulle videocassette anni prima che il termine venisse coniato. Anche qui, do importanza al passaggio del tempo nella visione, perché che ci sia o meno fra una puntata e l’altra non credo sia irrilevante, ma sono in grado di apprezzare entrambe le modalità di fruizione, che sono esperienze in parte diverse.

In fondo credo che la televisione, così come la lettura, sia un po’ come il cibo. Tutti sanno che cos’è, ma è un’esperienza unica e diversa per ciascuno, ed è qualcosa che magari non ricordiamo, ma che ci nutre e che ci fa diventare quello che siamo. Come tutti ho i miei gusti, ad esempio non sono una grande amante dei gialli e dei crime in senso ampio, ma sono onnivora e anzi cerco di spingermi a guardare cose che potenzialmente non mi attirerebbero necessariamente. Contemporaneamente sto attenta alla mia dieta visiva, non nel senso di preservarmi o schermarmi da cose violente o spinte o controverse, anzi, in quel senso non mi faccio nessun problema, ma ci sono molti programmi a cui magari potrei anche dare una possibilità, ma che getto in un calderone che scherzosamente chiamo “la vita è troppo breve per questo“. Sicuramente scelgo di seguire anche cose che non mi piacciono, una volta che ne ho intrapresa la visione, come modalità di “ascolto” di una prospettiva che solo in conclusione posso capire dove intendeva portarmi.

Nel guardare un programma televisivo, cerco la qualità, ma non disdegno né disprezzo programmi che valuto mediocri, quando non terrificanti. Penso che la creatività umana abbia un valore, e talvolta anche programmi che intellettualmente giudico minori hanno un loro importante peso. A volte cose meno brillanti ci parlano in modo più diretto, per qualche motivo, perché toccano comunque delle corde dentro di noi. In ogni caso, io stessa mi sono nutrita di molte ciofeche, di una buona dose di storielle formulaiche e stereotipate, nel corso dell’adolescenza soprattutto, e penso che sia un diritto di ciascuno di avere legittimamente il proprio percorso formativo, fatto di tante visioni bizzarre, fatto di errori e di tempi persi, di scelte di cui ci si vergogna. Anche quelle servono. 

Da più giovane tendevo ad essere snob nei confronti dei gusti televisivi delle persone, e se è inevitabile che mi faccia un’idea di qualcuno sulla base di quello che guarda, allo stesso tempo ora mi considero molto più indulgente perché penso che sia giusto che le persone scoprano le cose con le proprie modalità e i propri tempi. Magari sono io che certi programmi non sono preparata per o in grado di coglierli. E magari ci arrivo dopo. 

Considero le serie TV un forma d'arte, al suo meglio, ma ammetto anche di non avere più lo stesso fuoco sacro che mi animava un tempo, e mi chiedo se sia dovuto all’età che avanza o se sia invece dovuto alla grande abbuffata avuta nel tempo che mi fa entusiasmare sul serio veramente per poche produzioni. Probabilmente un po’ tutte e due.

Di mia tendenza recupero poco poi le serie vecchie. Cerco di rimanere sulla cresta dell’onda temporalmente parlando. È il mio modo di assorbire lo zeitgeist. Però capisco chi scava nelle miniere del passato, e rimpiango di non trovare il tempo di farlo io stessa.

Per un mese all’anno poi, solitamente ad agosto, digiuno: non guardo nulla. Mi è utile questo stacco, mi ricorda che cos’è il mondo senza televisione, ma alla stessa maniera in cui stacco volontariamente, riprendo con coscienza a nutrirmene.

Alla fine io scelgo di guardare una serie che seguo fondamentalmente per tre motivi:

1. Mi piace. Qui non c’è qualità che tenga, un programma può essere buono o no, ma se mi prende, mi fa piacere seguirlo. Un esempio di questo potrebbe essere per me The Orville, che razionalmente non giudico in modo particolarmente favorevole, ma che a dispetto di tutto mi piace. In questa categoria possono esserci cose che di fatto invece anche reputo molto intelligenti e brillanti e vera arte televisiva. Quando c’è qualcosa di veramente mozzafiato, che mi stupisce per come è realizzata e per quello che dice, lo percepisco nel sangue, veramente “it blows my mind”, come mi verrebbe da dire in inglese, ho un sorta di “wow” dentro di me, pieno di stupore, di meraviglia, di ammirazione. Un po’ come la consapevolezza di innamorarsi. In questo momento un programma del genere è per me Succession. Quando sono davanti a qualcosa di veramente grande me ne accorgo istintivamente, e inevitabilmente mi piace. 

2. Ha un grande seguito di pubblico. Se una serie è fortemente seguita, ci do almeno una possibilità, perché ritengo che sia un valore in sé riuscire ad aggregare molte persone: probabilmente si riesce a percepire qualcosa nel DNA della società di quel momento per cui si riesce ad essere così popolari. C’è chi al contrario è sospettoso di tutto quello che ha troppo successo, ma non è il mio caso.  Se il programma non mi convince, la popolarità in sé non me lo fa apprezzare, però ritengo che ci sia appunto un quid significativo nel successo nella misura proprio in cui raccoglie il consenso. E seguire qualche programma molto popolare mi fa sentire comunque parte della società e di quello che viene consumato in uno specifico momento. Rimpiango di non aver mai seguito Dallas, negli anni 80, e questo perché insegnanti che avevo alle medie non volevano che si guardasse.  Quando in seguito ho provato a seguirlo, non mi hai ispirato granché, però rimpiango di non aver fatto quell’esperienza nel momento in cui andava fatta. Oggi questo cavalcare l’onda della popolarità ha ancora più senso per le modalità contemporanee e social della fruizione. Il Trono di Spade mi è piaciuto parecchio, ma parte del piacere aggiunto veniva proprio dai consensi che riceveva, dalla conversazione mondiale, dalla condivisione di momenti salienti con altri fan. In passato mi è capitato di sentire che ci impatta anche la televisione che non guardiamo, nel momento in cui la guardano gli altri, e penso che ci sia molto di vero in questo. Per quello, essere consapevole di qualcosa che tira molto mi interessa. Un esempio di questo per me potrebbe essere This is us. È un programma che trovo gradevole, anche se un po’ troppo strappalacrime, ma di cui ho un’opinione media – ne apprezzo molto alcuni aspetti, ad esempio il discorso che sta facendo sulla mascolinità, ma complessivamente non ne sono entusiasta. Eppure, la sua popolarità, fa sì che io lo stia seguendo, almeno per il momento.

3. Una serie è molto apprezzata dalla critica. Sarà che sono io stessa una critica, ma do peso al giudizio e alle recensioni della critica. In altri argomenti in cui sono meno competente, spesso vedo con sospetto l’opinione degli esperti, perché è troppo scollata da me. In campo di televisione, sarà che appunto mi ritengo competente, ma sono spesso in sintonia, specie con alcuni esperti  che diventano un po’ la mia guida. Cerco sempre di ricordarmi di questo, e in modo biunivoco. Quello che voglio dire è che quando vedo che la critica, su argomenti in cui non sono so granché, apprezza cose che io non riesco a comprendere, ci do comunque un valore ricordandomi che c’è di base una competenza che io non ho. E quando vedo chi non è competente in televisione non apprezzare quello che dice la critica, cerco di ricordarmi che io mi trovo nella stessa situazione in altri settori. Chi sa vede e coglie aspetti che chi non sa non vede nemmeno. Concordo con l'ormai ex-critico di punta di The Hollywood Reporter, Tim Goodman, che nel panorama attuale, così fortemente in cambiamento peraltro, il ruolo di chi professionalmente è chiamato a guardare ed esprimere giudizi su quello che vede è un po’ quello di curatore. Ci sono stati diversi programmi che nel tempo ho guardato solo perché erano apprezzati dalla critica. Questo non significa necessariamente che poi io debba godermeli, però penso che sia stata sempre una scelta saggia affrontare questo genere di visioni. L’apprezzassimo Twin Peaks io non ho mai amato particolarmente, pur capendo razionalmente le ragioni delle lodi che riceve. In ogni caso l’ho guardato dall’inizio alla fine e sono contenta di averlo fatto. Mi sarei fatta impalare piuttosto che guardare Friday Night Lights, ed essermi costretta a farlo mi ha fatto scoprire uno dei programmi che mi sono piaciuti di più nel tempo, anche se ammetto di non averlo ancora terminato, e ho finito addirittura per leggere il libro da cui è tratto, che aveva vinto il Pulitzer. Solitamente, anche lì dove poi non concordo con la maggioranza della critica, di solito non mi pento di aver seguito qualcosa anche lì dove magari non mi è piaciuta. Raramente si è rivelato una perdita di tempo.

Il mondo del piccolo schermo sta cambiando rapidamente: per lo streaming, i vari dispositivi che modificano le modalità di fruizione, i nuovi attori produttivi, il sempre maggiore peso delle libraries e delle IP, le intellectual properties... mi chiedo quali fattori di cui non sono consapevole condizionino le mie scelte più di quando mi renda conto. 

Concludendo comunque, queste sono decisamente le ragioni che mi spingono a guardare una serie. Quelle che mi spingono a mollarla dopo che l’ho seguita per un po’, sono decisamente più nebulose e non ho delle regole consapevoli in questo caso.
Voi?


PS. Come scrivevo nella didascalia alla foto, si tratta di un’opera dei coniugi Kienholz (lui nato nel 1927 e morto nel 1994, lei nata nel 1943 e ancora vivente). Accanto all’immagine, la spiegazione diceva “Il team di marito e moglie conosciuto unitariamente come “Kienholz” è noto soprattutto per i suoi assemblaggi crudi e provocatori che commentano gli aspetti più oscuri della cultura e dell’ideologia americana. L’articolo onnipresente nella loro casa e studio era il televisore. Un oggetto che consideravano essere – nel bene e nel male – il più quintessenzialmente americano. Durante tutte le ore di veglia molti televisori erano accesi, a casa, riempiendola con notizie e rumore. I Kienholz hanno creato più di trenta assemblaggi unici che presentavano televisori di fortuna. Realizzati con materiali di scarto, come vecchie lattine dell’olio e blocchi cilindri, ciascun “televisore” non è in grado di funzionare pienamente. Rivelando disgusto e fascinazione in parti uguali, la fissazione dei Kienholz per l’impatto della televisione sulla società americana sembra anche più rilevante oggi”.   

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