Ha un
margine di miglioramento, ma da un punto di vista artistico è decisamente
riuscito Penny Dreadful (sul
significato del titolo si veda qui),
che ha da poco chiuso sull’americana Showtime la sua prima stagione di 8
episodi ed è stata rinnovata per una seconda.
La
struttura di questo primo arco è stata data dalla ricerca della figlia da parte
dell’ex-esploratore Sir Malcolm Murray (Timothy Dalton), insieme a Vanessa Ives
(Eva Green), sensibile alla possessione e vagamente Jane Austen-iana, e
all’avventuriero americano Ethan Chandler (Josh Hartnett). Sono personaggi
originali, che ben si armonizzano agli altri. Il primo successo della serie è infatti
stato quello di riesumare icone classiche della letteratura ottocentesca – il
dottor Frankenstein (Harry Treadaway) e la sua “creatura” (un mesmerizzante Rory
Kinnear), Dorian Gray (Reeve Carney), Dracula (Robert Nairne) - e di
rivitalizzarle in un modo che è risultato sia credibile che originale, restando
comunque fedele alla loro intima essenza. È riuscito anche a farlo restituendo,
nella costruzione delle storie, un senso antico di paura e fascinazione per il
sovrannaturale e l'oscuro, con la misura e gli eccessi che si collegano a
quegli anni.
Gli
aspetti migliori della creazione di John Logan, quelli in cui ha realizzato la
tensione estetica a cui si vede che aspira, sono quello poetico e artistico-figurativo.
Sotto il
primo profilo il mostro pensato da Mary Shelley - un vero romantico, secondo il
senso letterario del termine - e del suo creatore Victor Frankenstein sono
emblematici. Poeti come Keats e Shelley non vengono solo citati, ma incarnati,
con rimandi verbali e visivi intensi. Quando si vede il dottor Frankenstein
passeggiare in un prato di narcisi gialli come non ripensare alla più classica
delle poesie di Wordsworth, “I Wandered Lonely as a Cloud”, anche prima che
venga esplicitamente citata? E quando il mostro riflette sulla sua natura come
non sorprendersi del fatto che citi proprio quella Mary Shelley che ha ideato
il suo mito? Un sublime riferimento metatestuale, fatto proprio da lui: quasi
da eccitarsi.
Sotto il
profilo artistico, Dorian
Gray è affascinato di più che dal suo solo ritratto. Il senso pittorico è molto
forte. La cinematografia della serie, specie in alcuni momenti (penso
specificatamente alla 1.02) è spettacolosa. E in chiusura, l'interpretazione di
Dorian Gray come qualcuno che, non potendo provare sensazioni (perché se le
prende il suo ritratto, la sua immagine) ne cerca di sempre più forti, è sia
una bella metafora della 'vita spericolata' contemporanea, sia un contraltare
all'epoca vittoriana in cui è calato. E, se il mostro di Frankenstein è
l'Ottocento, Gray è lo sbocciante Novecento. È sicuramente il piacere decadente
che ha sempre rappresentato, ma è già, in
nuce, il Michele degli Indifferenti
di Movavia. Ci ho pensato, in chiusura di stagione. Poche serie elicitano
simili accostamenti.
In
qualche misura, mi pare che ciascuno dei personaggi rappresenti un'idea del
secolo che rappresentano: Brona Croft (Billie Piper, The Secret Diary of a Call Girl), ad esempio, affetta dal “mal sottile”, poteva essere forse
anche più fruttata per questo aspetto, ma è un vero classico dell’immaginario
letterario dell’epoca, sotto questo profilo. Del servitore Sembene (Danny
Sapani) aspettiamo di scoprire di più. Le puntate, pur essendo chiaramente non
autoconclusive sono una esperienza
autonoma, assestante l'una dall'altra.
Un
programma da cui farsi sorprendere.