ATTENZIONE
SPOILER. In 13 reasons why (su Netflix, graficamente scritto
come “Th1rteen R3asons Why”), diventato semplicemente Tredici in
italiano, Hannah Baker (Katherine Langford) è un’adolescente che si è appena
tolta la vita. Dietro di sé ha lasciato, con un gusto un po' retrò, una serie
di audiocassette da lei registrate, in cui ad ogni lato del nastro accusa per
la sua scelta un diverso compagno di scuola. A turno le persone vengono
istruite ad ascoltare quello che lei ha detto, seguendo anche una mappa e, dopo
aver sentito tutto, a passare i nastri alla persona successiva. Ora è il turno
– e attraverso di lui il nostro - di Clay Jensen (Dylan Minnette),
l’undicesimo, che lavorava con lei come maschera in un cinema e che era
innamorato di lei. La cosa lo sconvolge e ascolta tutto in piccole dosi, fra
titubanze, desiderio di parlarne con altri, dubbi su come decidere di
comportarsi. A sostenerlo c’è l’amico Tony (Christian Navarro). Hannah dice la
verità? Mente? Ogni puntata è dedicata a una diversa persona della sua vita:
Justin Foley (Brandon Flynn), con cui ha vissuto il suo primo bacio e che poi
ha diffuso pettegolezzi sessuali sul suo conto (1.01); i migliori amici con cui
si incontrava regolarmente al coffee shop Monet’s e dalla quale si è sentita
tradita, Jessica Davis (Alisha Boe) e Alex Standall (Miles Heizer, Parenthood)
– 1.02 e 1.03; Tyler (Devin Driud) il fotografo dell’annuario scolastico che le
faceva stalking (1.04); Courtney (Michele Selene Ang), la ragazza
apparentemente sempre gentile che ha sparlato di lei pur di non rivelare di
essere lesbica (1.05); Bryce Walker (Justin Prentice) che l’ha violentata
(1.12)... Intanto i genitori di lei, Olivia e Andy (Kate Walsh e Brian D’Arcy
James), che non hanno nemmeno ricevuto un biglietto d’addio, disperati, fanno
causa alla scuola, perché hanno ragione di credere che la figlia fosse vittima
di bullismo. Tutti si chiedono quanto conoscessero la ragazza.
Tratta dal
libro per giovani adulti “Tredici” di Jay Asher (Mondadori), e sviluppata per
la TV da Brian Yorkey (che nel 2010 come drammaturgo ha vinto il Pulitzer), la
serie prima facie parla di suicidio. Ed è indubbio che questo sia uno dei temi
trattati. Il liceo frequentato dalla ragazza è sconvolto dall’evento, gli
studenti vengono incoraggiati a parlare dell'argomento e genitori, insegnanti e
studenti lo affrontano in più occasioni e in più modalità. La serie però, di
fatto, affronta altre tematiche. Una è quella della banalità delle azioni
quotidiane e di come possono portare delle cicatrici profonde per qualcuno che
è vulnerabile. Di come le micro-aggressioni giornaliere, se non gestite,
possano diventare qualcosa di mastodontico. Del potere dei segreti, dei
pettegolezzi, delle parole. Hannah aveva apparentemente una vita normale, senza
particolari problemi, sono proprio questi piccoli atti che si accumulano l'uno
sull'altro ad averla distrutta. Non è colpa di nessuno ed è colpa di tutti. E
si è trovata isolata.
Il tema di
fondo è lo stupro, sono le violenze e le molestie verbali e sessuali.
Anna Silman (The Cut) dice bene quando osserva che
“il messaggio che il programma riesce davvero a trasmettere ha a che fare con
la misoginia: come la persistente oggettificazione può erodere l’autostima di
una donna, e dei molti modi in cui falliamo nei confronti delle giovani donne
nel propagandare una cultura del silenzio. (…) Il programma prende molti dei
termini di moda che in questo momento turbinano nello spirito del tempo della
cultura giovanile americana – mascolinità tossica, cultura dello stupro, far
impazzire qualcuno, cyber bullismo, slut-shaming – e mostra come
sono messi in scena nei corridoi della scuola, perpetrati da una gamma di
complicati teen-ager che trascendono gli usuali archetipi da spogliatoio”.
Viene ben illustrato come il peso dello status e del potere di qualcuno può
avere effetto sugli altri e di come la “passività individuale e la negazione di
gruppo” possa offrire protezione a predatori e facilitatori.
Nonostante
qualche voce fuori dal coro, la maggioranza ha amato e apprezzato la serie. Uno
degli aspetti più interessanti per me è come si passi di continuo fra il
momento attuale e i ricordi di cose avvenute nel passato quando la protagonista
era in vita. Questo avviene costantemente, ma l’aspetto originale è il fatto
che i ricordi nascano da una sorta di straniamento del protagonista maschile
che forzatamente e dolorosamente rievoca situazioni del passato, che vede in
una nuova luce, o che vorrebbe anche dimenticare o che vorrebbe aver vissuto in
modo diverso. Questa tecnica apparentemente trita di costanti flashback è
proprio resa fresca da questa associazione di recupero della memoria da parte
del personaggio. E il senso di perdita è proprio stato costruito su questa
modalità apparentemente ingenua. Hannah poi, come narratrice inaffidabile,
riesce a trasmettere bene il processo di soggettivizzazione delle esperienze. E
trasporta lo spettatore in un percorso di empatia più che di conoscenza
(Silman).
C’è chi ha
lamentato il fatto che la serie renderebbe affascinante il suicidio. Non mi
sembra proprio. Al di là dell’opportunità di avvertire il pubblico del tipo di
contenuto che si sta per affrontare, e dei riferimenti a cui rivolgersi se si
stesse pensando di farla finita, aggiunti poi da Netflix in apertura delle
puntate e sicuramente essenziali, si fa un ottimo lavoro nel focalizzare la
conversazione su un tema che storicamente è sempre stato molto difficile
affrontare proprio per timori di emulazioni. L’obiettivo qui è proprio quello
di non nascondere la testa sotto la sabbia e far finta che il problema non
esista, quando invece è così rilevante. Se legittimamente si potrebbe impedirne
la visione a un pubblico eccessivamente giovane, penso che sarebbe proprio uno
di quei programmi che andrebbero guardati a scuola e discussi, con insegnanti e
genitori.
Anche la
resistenza di alcuni per una seconda stagione, già confermata, motivata dal
fatto che la serie avrebbe già detto tutto quello che c’era da dire, non la
condivido. Potenzialmente c’è ancora molto terreno inesplorato.
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