In Life Sentence, Stella Abbott (Lucy Hale, Pretty Little Liars) ha
trascorso gli ultimi otto anni della propria vita a credere che sarebbe morta
di cancro. Ha vissuto ogni momento come se fosse l’ultimo, trovando l’amore
della sua vita a Parigi, e il supporto di tutta la sua famiglia. L’idea era che
la morte le sarebbe sembrata solo la prossima grande avventura.
Quando la dottoressa Helena
Chang (Anna Enger), l’oncologa che l’ha in cura, le comunica che inaspettatamente
è guarita, accanto alla gioia di sapere che le rimangono presumibilmente ancora
molti anni di vita si trova davanti la disillusione di scoprire che tutti
quelli che la circondavano hanno mentito per proteggerla: il padre Paul (Dylan
Walsh, Nip/Tuck) e la madre Ida (Gillian Vigman) si stanno separando, anche
perché lei si è resa conto di essere bisessuale e ha un’amante nella vecchia
amica di famiglia, Poppy (Claudia Rocaford). Il fratello maggiore, Aiden (Jayson
Blair), ha usato la sua malattia per portarsi a letto le donne, e la sorella
maggiore Elizabeth (Brooke Lyons), sposata con Diego (Carlos PenaVega), ha
rinunciato ai suoi sogni professionali per prendersi cura della sorella. Perfino
il marito Wes Charles (Elliot Knight), che ha sposato immediatamente aspettandosi
di avere con lui al massimo sei o otto mesi, le ha tenuti nascosti i suoi gusti
e desideri per accomodare quelli di lei, e non si conoscono davvero. Lei stessa
deve capire che cosa fare della sua vita.
Questo dramedy adolescenzial-melodrammatico
ideato da Erin Cardillo e Richard Keith per la CW è evidentemente favolistico
in partenza. Poteva uscirne una cosa alla Hart
of Dixie incontra Colpa delle Stelle,
ma il problema è che è troppo infantile e stucchevole. Non è sgradevole, anzi
cerca fin troppo di esser adorabile. L’attrice protagonista è una bambolina
perfetta per la parte ma, verrebbe da
dire, troppo perfetta: suona falso. La realtà di una malattia terminale non è
che poi semplicemente muori. Su di lei non sembrano esserci stati segni fisici.
E la realtà che di fatto
la protagonista si trova a dover vivere ora non è facile – “life sentence” in
fondo è “ergastolo” in inglese. Però il programma è troppo blando e generico. Non
è disposto a bilanciare il lieve intento umoristico guardando in faccia allo
stesso modo gli aspetti scomodi e difficili e complicati della situazione, le
emozioni che si trascina dietro. Se avesse questo coraggio sarebbe stata una
premessa affascinate da esplorare.
Si direbbe anche una
critica ai numerosi film che romanticizzano le malattie mortali. Peccato solo
che, giudicando dalla partenza, non riesca ad affrancarsene non riuscendo a
scavare sotto la confettosa e innocua superficie.