È
stata una delusione il pilot di Manifest
(sulla NBC negli USA, su Mediaset Premium in Italia, con una sola settimana di
distanza dall’originale), descritto in partenza come un Lost al contrario con l’aggiunta di un pizzico di This is us, ed il motivo principale è
che, seppure sia stato fatto un lavoro anche dignitoso, è stato molto
ordinario e insipido su ogni livello:
sceneggiatura e dialoghi, regia, recitazione…
La premessa è di per sé intrigante.
Un gruppo di persone a bordo di un aereo in volo dalla Jamaica a New York, il Montego
Air Flight 828, attraversa una turbolenza piuttosto pesante, ma che si risolve
nell’arco di poco tempo. Una volta atterrati, i passeggeri vengono accolti con
shock dalle autorità e poi dai familiari, che non sanno spiegarsi che cosa sia
successo: se per chi era in volo sono stati attimi, a terra sono trascorsi più
di 5 anni, durante i quali tutti loro sono stati presunti morti. Ben Stone
(Josh Dallas, Once Upon a Time) e il
figlioletto Cal (Jack Messina), che soffre di cancro, ora ritrovano
rispettivamente una moglie e una madre, Grace (Athena Karkanis), e una figlia e
una sorella gemella, Olive (Luna Blaise), cresciuta, e la scienza avanzata al
punto da poter potenzialmente salvare la vita di Cal. La sorella di Ben,
Michaela (Melissa Roxburgh), una poliziotta, viene a sapere che il fidanzato
Jared (J.R. Ramirez) è diventato detective e si è sposato con la sua migliore
amica. Sia lei che Ben poi hanno perso la madre. La ricercatrice medica Saanvi
(Parveen Kaur) realizza che il lavoro da lei fatto prima di “scomparire” è
stato nel frattempo messo a frutto permettendo di curare molti pazienti
pediatrici. Le autorità cercano di capire che cosa sia capitato e intanto tutti
i “sopravvissuti” cominciano a sentire delle voci che danno loro dei comandi su
cose da fare.
La serie ideata da Jeff
Rake (The Mysteries of Laura) accenna
appena allo sconvolgimento emotivo da cui sarebbero realisticamente travolti i
protagonisti, per concentrarsi molto di più sul fatto che percepiscono questi
comandi che li aiutano a sventare pericoli o risolvere problemi nel mondo che
li circonda, confusi dal loro ruolo in quello che li rende una sorta di “eroi
involontari”. Stanno forse impazzendo?
L’influsso di Lost è evidente non solo per il fatto
che si tratta di un volo aereo con un twist
poi sovrannaturale, ma anche dall’attenzione ad esempio ai numeri che compaiono
ai protagonisti, a partire proprio da quel Flight 828, che poi viene rivisto in
altre occasioni, compresa una citazione
biblica amata dalla madre dei protagonisti, Romani 8:28: “tutto concorre al bene”. Il confronto con la
serie di culto è devastante per Manifest.
Chi dimentica l’occhio di Jack che si apre, nel modello emulato? Qui alla fine
della visione non rimane nella memoria alcuna scena o fotogramma, salvo forse
la bella scritta del titolo, nella title
card. È assente ogni brivido, ogni autentica tensione, per lo
spettatore: un peccato mortale con materiale di questo potenziale.
La rende tediosamente terribile
la prospettiva che si trasformi in una missione della settimana spiritual-sovrannaturale,
se non addirittura religioso-cristiano, qualcosa di, è il caso di dirlo, di
manifesto – Daniel Fienberg ricorda appropriatamente su The Hollywood Reporter che il
Manifest del titolo, ovviamente la lista dei passeggeri di un volo, non può non far ricordare che la teoria del “Destino
Manifesto” è la nozione che l’espansione coloniale bianca attraverso il Nord
America era voluta da un potere superiore. Da leggere le sue osservazioni sul
tema della religiosità nel pilot della serie.
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