È
cominciata molto sottotono la seconda stagione di The Good Doctor, ma si è subito ripresa con una memorabile, potente
seconda puntata scritta da David Shore (House).
Continuo
a ripensare a quell’episodio che ha toccato temi importanti e ha dimostrato
come questa serie, non eccelsa ma significativa come tavola rotonda sullo Zeitgeist
contemporaneo, riesca ad avere momenti che si elevano dall’ordinario.
Nella
puntata in questione, “Middle Ground” (2.02), una delle storie principali
riguardava la mutilazione genitale femminile.
ATTENZIONE
SPOILER. Una ragazza minorenne, Asha/Mara (Camille Hyde) si rivolge al pronto
soccorso per chiedere la ricostruzione vaginale, dopo che una mutilazione
genitale che i genitori le hanno fatto fare all’età di due anni, l’ha lasciata
piena di cicatrici. Lei si vergogna e non accetta quello che le stato
perpetrato e chiede aiuto. Pur sapendo che la ragazza è minorenne e ha dato un
nome finto, la dottoressa Audrey Lim (Christina Chang) finge di non
accorgersene per poterla aiutare senza dover allertare i genitori. Fatta
l’operazione, la ragazza si sveglia con fortissimi dolori e risulta chiaro che
il motivo è che la mutilazione non è stata completa e rimane del tessuto
nervoso sensibile. A questo punto i genitori devono necessariamente essere
coinvolti. Le soluzioni, da un punto di vista medico, sono due: o si
ricostruisce salvando i nervi che ci sono, con la possibilità di recuperare la
sensibilità al piacere; o, cosa chirurgicamente più semplice, si finisce quello
che è stato cominciato e si rimuovono tutti i nervi. La dottoressa spinge per la
prima opzione. La ragazza, sedata perché sopporti i dolori, svegliata
appositamente, di fronte ai genitori dice di volere la seconda. Non convinta, Audrey
chiede di sentire la ragazza da sola, e lei ribadisce che non se la sente di
tradire la sua cultura e la tradizione. La chirurga, a dispetto di quello che
le ha detto la ragazza, mente e dice che lei è favorevole per la prima opzione.
Quindi viene fatta una ricostruzione. Al risveglio, tutto è andato bene. I
genitori di lei non vengono messi al corrente, ma la Mara si accorge di quale
operazione sia stata fatta: le era stato spiegato che per la ricostruzione
avrebbero preso del tessuto dall’interno della sua guancia, e toccandosi la
guancia con la lingua ha capito. Sorride e ringrazia la dottoressa.
Questa
vicenda, è stata significativa in sé e per sé nel contenuto, perché affronta un
tema importante e poco dibattuto e fin troppo presente, denunciandone la
barbarie e la criminalità. Ma, per quanto sia significativo esplorare diritti
umani, si è andati al di là del trattare un social issue importante. Altre questioni sono emerse, anche con l’eco
della storia parallela. Il dottor Shaun Murphy (Freddie Highmore) si accorge
che un inserviente dell’ospedale soffre di cancro al pancreas. Vogliono fargli
dei test, ma senza spiegargli la vera ragione per non spaventarlo. Il giovane
medico, nonostante le buone intenzioni, non riesce a mentire - ma nella sua
parabola di apprendimento alla fine della puntata invece ce la fa
- e glielo rivela. L’uomo in questione viene spinto ad operarsi, pur
non volendolo, dai familiari che vogliono per lui una vita più lunga che
l’alternativa consentirebbe, solo pochi mesi di vita. Sebbene l’operazione vada
bene, ci sono delle complicazioni e lui muore. La famiglia si colpevolizza, ma
Shaun mente dicendo che l’uomo in realtà l’operazione la voleva.
Attraverso
entrambe queste storie, si esamina un concetto molto attuale nel dibattito
sociale, trasversalmente presente nella società odierna (penso all’ambito del
sesso, ma non solo), e molto più labile di quanto normalmente possa sembrare:
quello del consenso. Qui, si mostra come il consenso non sia così lineare e
apparentemente scontato, ma si presti a delle aree grigie più significative di
quanto normalmente non si ammetta, e di come talvolta un sì non sia del tutto
convinto. Qui si affronta una tematica morale importante, e si ammette che non
ci sia una risposta bianca o nera.
Il
secondo grande tema affrontato, che in questo caso si intreccia al primo, e che
è un grande favorito dell’autore già dai tempi del dottor House, è quello della
menzogna. È sempre la cosa giusta dire la verità? Quando è lecito mentire
e quando è bene dire la verità? Che cosa ci fa decidere per l’una o per l’altra
cosa? Qui, da entrambe le storie, alla fine si giunge alla conclusione che non
è rilevante dire la verità se questa non aiuta. Va bene mentire. Devo dire che
non sono del tutto a mio agio con questa conclusione. Non so se la condivido.
Tuttavia, non posso negare che qui io abbia trovato corretta moralmente la
soluzione dei personaggi. Indipendentemente dalla mia posizione in proposito
penso che sia fantastico che la serie riesca porci davanti a questioni etiche
così quotidiane e rilevanti.
Penso che
sia stata una puntata coraggiosa su più livelli, e rispetto al tema della
menzogna in particolare, penso che si sia adottata una prospettiva di fatto
abbastanza impopolare. È più comune sentire difesa la verità sempre e comunque.
Qui i personaggi optano per la soluzione opposta, con delle implicazioni anche
deontologiche importanti. Mi è tornata in mente una citazione di Brian Kinney
in Queer As Folk, a cui ho ripensato
più volte negli ultimi mesi, ovvero che, parafrasando, non è mentire se la sola
verità che riescono ad accettare è la loro. Mi ha sempre fatto pensare molto, e
qui penso che si adatti alla prima delle due storie raccontate.
Di fatto
io non sono sicura che avrei agito con i personaggi, ma mi piace essere messa
nella posizione di interrogarmi su che cosa avrei fatto io e essere lasciata
in sospeso a riflettere su quale sia il comportamento morale più giusto.
Penso che questo sia uno dei grandi poteri della televisione e della narrazione
in generale. Qui, la serie ha davvero dimostrato un potenziale realizzato,
mostrando come anche serie di fatto qualitativamente meno ambiziose di molte
altre possano offrire intrattenimento pregnante.
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