Se fossimo in un fumetto
ambientato a Paperopoli, questo sarebbe il
momento in cui io sarei costretta a mangiarmi il cappello. La ragione è
la mia condanna della serie The Orville
(Fox), che qui mi rimangio. Ho continuato a seguirla nonostante l’avessi stroncata
al debutto della prima
stagione, e non posso negarne dei pregi, nonostante di fatto io continui a
pensare quello che ho scritto allora.
La ragione è che The Orville è più Star Trek delle più recenti incarnazioni di Star Trek stesse. Con la vocazione all’esplorazione. Lo spirito è
quello, aggiornato ai giorni nostri, e lo stile dello storytelling è quello, anche nella gestione del rapporto fra plot
verticale e orizzontale. Le battute continuano il più delle volte ad essere a
mala pena tiepide, ma qui l’obiettivo non è ridere, è solo allentare la
tensione drammatica con quel tipo di “scemata” che magari si farebbe in un
gruppo di amici. Anche se ci scappa qualche irrisione ben piazzata, come Dolly
Parton presa come inno di rivolta (2.12), o WTF (what the fuck – ma che cazzo)
interpretato come Wireless Telecommunication Facility (Struttura di
telecomunciazione wireless), che ci fa pensare a quante cantonate è facile
prendere interpretando il passato con gli occhi del presente.
La solidità del racconto
varia a seconda di chi la scrive. Non è mai alta televisione, il più delle
volte si sospira proprio per la sua mediocrità, ma ha punti di forza: nell’episodio
autoconclusivo presenta la sua favoletta morale confezionata in modo
allegorico, ma diretto ed efficace, con la critica alla realtà contemporanea
molto evidente, che è nella tradizione della saga e del genere sci-fi più in
generale; nella poiesi dell’equipaggio la narrazione è porosa, nel senso che c’è
un “ideale spazio vuoto” in cui lo spettatore si possa immaginarsi come
personaggio altro, presente nel propria fantasia con loro, coinvolto nelle loro
vicende, elemento spesso trascurato nelle indagini televisive, ma significativo
nella costruzione del fandom e nell’appagamento del fan, specie giovane mi
verrebbe da dire pensando a me bambina; c’è più in primo piano una
considerazione dell’equipaggio non solo come personale scientifico e militare,
ma come esseri viventi che interagiscono e imparano a conoscersi.
Potrebbe facilmente
esserci più spessore. Nella seconda stagione, ATTENZIONE SPOILER, in “Identity”
(parte I e parte II, 2.08 e 2.09) si arriva su Kaylon-1, il pianeta di Issac
(Marc Jackson), dove abita una razza non biologica che vede quelli che lo sono
come inferiori. La terrificante scoperta che viene fatta è stata costruita con
acume: Kai (Ty Finn), il figlio più piccolo della dottoressa Finn (Penny
Johnson Jerald), si cala in una botola. Scherzosamente mi viene da dire che non
è grande a sufficienza per aver seguito Lost
ed essere sospettoso delle botole a prescindere, ma soprassediamo. Si addentra
in una caverna e vediamo che rimane sorpreso e impaurito, ma non sappiamo
perché, poi in un momento subito successivo lo vediamo scioccato e ancora non
sappiamo perché. Quando la madre, insieme a Bortus (Peter Macon) e Talla
(Jessica Szohr, Gossip Girl) lo
trova, e vengono indirizzati a guardare, con tanto di dito puntato, da horror,
ci viene svelata la prima parte di quello che ha visto il bambino: teschi e
ossa che nemmeno nella Cattedrale di Otranto o al Duomo di Gemona del Friuli. Ma
si aspetta ancora per il secondo passaggio, si contatta la nave e solo allora
si mostra in tutta la sua portata l’’orrore, che noi vediamo quando viene
trasmessa al ponte di comando: montagne a perdita d’occhio di resti simili. La
tensione della rivelazione di un olocausto che ha sterminato l’intera razza
biologica che ha costruito quella attuale dei kayloniani c’è stata. E l’impatto
visivo è stato forte. Il regista Jon Cassar si è anche divertito un bel po’ nel
pim pum pam (termine tecnico) dello
scontro fra navi dell’unione, kayleiane e krill nella seconda parte. L’evidenza
di un genocidio non si è portata dietro tutto quella riflessione che ha dato un
Battlestar Galactica, che ha usato
pure questa metafora, ma nessuno nemmeno si aspetta una cosa del genere.
Intanto si ha contatto con
una “razza” aliena che vuole sterminare gli esseri biologici perché inferiori e
la ratio che li spinge ad una tale
epurazione è che gli esseri umani (e per estensione tutti gli altri) hanno
comportamenti che portano alla schiavizzazione dei propri simili e si fanno la
guerra: ma non è una contraddizione logica condannare qualcuno per quello che
loro stessi compiono? E anche ammesso e non concesso che ci siano esseri
superiori e inferiori, sulla base di quale principio l’essere superiori
giustifica la soppressione degli inferiori? Il fatto che creerebbero potenziale
destabilizzazione sembra un po’ deboluccia come argomentazione. Quello che però
è mancato e poteva esserci con pochissimo è l’interrogarsi su che cosa sia
l’intelligenza. Essere intelligenti non è solo avere un mucchio di informazioni
e fare bene i calcoli. E poco importa se si è dei genocidi, si è comunque più
intelligenti. L’intelligenza morale e l’empatia sono forme di intelligenza, e
non mostrarlo, o quanto meno non porsi degli interrogativi sulla definizione e
la natura dell’intelligenza e su come la valutiamo e misuriamo è…beh, poco intelligente.
Questa è l’occasione sprecata di The
Orville che ha davanti a sé un problema filosofico che non ha saputo non
dico approfondire e discutere, ma nemmeno accennare o suggerire. Grave. Tragico.
Non si è fatto né nella prima parte, scritta da Brannon Braga e Andre Bormanis,
né nella seconda parte scritta da Seth MacFarlane, che in fondo per la sua
creatura ha scritto alcune delle puntate più riuscite della seconda stagione. E
il problema si è ripetuto altrove, basti pensare anche a come si è affrontato
il tema della malattia quando l’addetta alla sicurezza Alara viene costretta a
lasciare il lavoro per problemi di salute. Bisogna ammette però in questo caso che
non si potevano in generale avere chissà quali aspettative dalla puntata “Home”
(2.03), scritta da Cherry Chevapravatdumrong, una delle peggiori di questo
ciclo.
Uno degli episodi più
riusciti, “Lasting Impressions” (2.11), invece, scritto da Seth MacFarlane,
riesce ad incorporare delle pillole di riflessione filosofica: L’idea di fondo
era forte e lineare: viene recuperata una capsula del tempo con degli oggetti
risalenti alla nostra epoca. Se la storia secondaria, umoristica, vedeva i
mocleiani scoprire il piacere e la dipendenza dal fumo, la primaria si è
concentrata su Gordon Malloy che immette un telefono cellulare con tutti i suoi
dati nel simulatore, ricreando così in virtuale la vita di Laura (Leighton
Meester, Gossip Girl), che ha
lasciato a testimonianza di sé. Si innamora di questa donna e si ha l’occasione
di riflettere su più temi: dall’aristotelico “uomo come essere sociale”,
all’impatto degli altri nelle nostre vite e della nostra su quella degli altri
(un tema ripreso nella due puntate finali di “viaggio nel tempo” – 2.13, 2.14),
al ricordo di noi e dalla portata temporale di quello che facciamo… Dolce,
romantico, semplice, efficace.
Lo stesso dicasi per un
altro tema caro alla serie, quello della discriminazione di genere. In “Sanctuary”
(2.12), scritta da Joe Menosky con la regia di Jonathan Frakes (sì, il
comandante Riker della Next Generation),
si scopre una colonia di mocleiani femmine, scappate dal proprio pianeta dove,
in quanto considerate più deboli e inferiori, sarebbero state assegnate ad una
chirurgia ricostruttiva per trasformarle in maschi. Chiedono di essere
riconosciute come Stato, ma Moclon si oppone e minaccia di uscire dall’Unione
Planetaria, ricordando che loro producono la gran parte delle armi di cui
l’Unione ha bisogno. La brillantezza qui è stata sì di mettere in scena valori versus interessi, ma anche quella di
mostrarsi consapevoli del delicato bilanciamento fra tolleranza culturale e
negligenza etica. Ed è bastata una sola frase del capitano nel dire questa cosa
a sintetizzare la tensione filosofica in proposito.
Quello che si è riusciti
a fare bene è fare il verso, ma senza essere poi così parodistici se si prende
una prospettiva antropologica, alle tradizioni klingoniane, quando l’equipaggio
si reca sul pianeta Moclus, da cui viene Bortus per una cerimonia in cui lo si
assiste pisciare, cosa che la sua specie fa solo una volta all’anno, con un
rituale apposito, Ja’loja (2.01). E si riprende la tematica sulla sessualità in
senso ampio con “Deflectors” (2.07 – in italiano è diventata “Scudi” invece di
“Deflettori”, ma probabilmente perché anche in originale originariamente era
indicata come “Shilelds” (“scudi” appunto) sull’attrazione etero-erotica
considerata innaturale e illegale su Moclus, e con “Primal urges – Bisogni
primordiali” (2.02) sulla dipendenza dalla pornografia di Bortus. E poi il
senso dell’oroscopo (2.05) e la complessità delle relazioni sentimentali umane,
dal rapporto fra Ed (Seth MacFarlane) e Kelly (Adrianne Palicki) a quello fra
la dottoressa Finn e Isaac (2.06 e successive).
Alla fine, mi accorgo di
desiderare merchandising della serie, e se non è un segno che ne sono presa a
dispetto della valutazione intellettuale più o meno positiva, non so quale lo
sia. Attendo una terza stagione.
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