Osmosis (Netflix), che dà il nome alla serie, nella finzione
televisiva è una innovativa app che un fratello e una sorella, Paul (Hugo
Baker) ed Esther (Agathe Bonizter) Vanhove hanno sviluppato per trovare l’anima
gemella, l’amore eterno con cui rimanere costantemente connessi. Siamo a
Parigi, in un prossimo futuro, e alcuni soggetti sono stati reclutati per un
trial per valutarne il funzionamento: ingoiano una pillola, si liberano dei
nano robot che scannerizzano il subconscio, viene fatta una ricerca sui social
network per un profilo compatibile, mentre tutti i dati fisiologici vengono
monitorati dai realizzatori dell’impianto.
I protagonisti tutti,
che siano gli sviluppatori dell’algoritmo o i partecipanti, sono tetramente
soli e disillusi, stato d’animo di fondo che permea tutta la serie. Esther è
solo interessata a far uscire la madre dal stato vegetativo permanente in cui
si trova ed eventualmente al sesso virtuale occasionale; l’innamorata di Paul, Joséphine (Philypa Phoenix) è stata rapita non si sa
bene per quale ragione e lui la cerca disperatamente, poi si scopre che ha
voluto staccarsi da lui; Billie (Yming Hey), un personaggio gender-fluido che
usa tacchi alti e pronomi femminili e che è colui che tiene i contatti con i
tester, non rivela mai nulla rispetto alla propria vita personale; Ana (Luna
Silva), reclutata da quelli che si fanno chiamare Umanisti per sabotare il
progetto, è una ragazza sovrappeso che si sente perennemente una fallita in
amore; Lucas (Stephane Patti) ha un fidanzato, Antoine, ma lo lascia perché la
app gli dice che il suo autentico amore è il suo ex; Niels (Manoel Dupont),
minorenne e tecnicamente senza i requisiti per partecipare, spera trovando il
sentimento di superare una dipendenza dal sesso che gli impedisce di essere
felice…
L’idea di fondo è
entusiasmante: tutti hanno diritto all’amore, all’intimità, alla passione, perché
sono necessità umane fondamentali, e all’obiettivo finale della felicità. È una
fabbrica dei sogni, strombazzano, e non per nulla le loro fondamenta sono sul
quello che in precedenza era uno studio cinematografico (1.03). A fronte di questa
concezione filosofica dell’amore, come eterno, destinato, unico, se ne
suggeriscono dialetticamente delle altre, attraverso i tentativi di discredito
da parte della concorrenza e attraverso le osservazioni di osservatori e
detrattori.
La “Perfect Match”, ad
esempio, accusa questa impostazione di creare persone che sono “prigionieri
emozionali”, proponendo piuttosto come ideale la possibilità di cambiare perché
le persone nel tempo cambiano. Qual è l’ideale? Una possibile investitrice, che
fa parte di un gruppo chiamato i Moicani, domanda: “è tollerabile uno stato di
permanente felicità?”. E ancora, non viene forse imposta una “tirannia della
gioia” (1.07) dimenticando che l’amore a volte può anche far male? Una
posizione critica intradiegetica viene da un intervistato in TV che lo vede
come un atto di forza contro l’umanità, un progetto totalitario attraverso
l’idea del’amore. Sarebbe da ingenui non notare che il nome del personaggio è
Mathieu Christo. Cristo? Amore? E poi, perché la app funzioni i personaggi
debbono essere monitorati da uno staff che registra il livello di ormoni e
altri impulsi elettrici e reazioni chimiche che si accompagnano all’esperienza dell’amore, tanto che Ana
lamenta il fatto di sentirsi una “sorvegliata sentimentale”. Però sembra
crearsi genuina intesa con l’istruttore di fitness che lei non si aspettava potesse
essere la persona giusta. Che rapporto c’è fra sesso e amore? È
un’illusione credere che esista una persona giusta? Come si fa a saperlo e a
saperlo con certezza? Non è meglio ignorarlo? Paul torna con il suo ex perché
glielo ha detto la app, ma si domanda se sia la decisione giusta, vuole non
avere dubbi sull’amore che prova, ma almeno nella versione che stanno testando
c’è un margine di errore del 20%. L’essere umano è sempre al centro, garantisce
Paul al lancio (1.08), con i suoi dubbi e le sue scelte e c’è sempre un
rischio, mentre allo stesso tempo definisce gli utilizzatori i “pionieri di una
nuova umanità”. Martin, una macchina creata da Esther, di innamora di lei: è
possibile un amore simile? Nel virtuale tutto e possibile, ma c’è differenza
fra virtuale e reale?
La forza e la bellezza
del programma ideato da Audrey Fouché (Les
Revenants), ripreso da un’omonima web
series di Arte, sta proprio nel presentare diverse istanze filosofiche che
contendono il campo alla premessa principale e ne minano le fondamenta
facendoci riflettere su più versanti sul concetto di “anima gemella”. La serie
però delude, è pesante e troppo fredda, e con dei limiti di scrittura notevoli - penso in particolare alla
conclusione dell’arco di Ana come talpa, ma più in generale alla costruzione
dei personaggi poco definiti, fuori dalle pennellate macroscopiche, e ai
dialoghi dimenticabili. È bello ritrovarsi a guardare una serie in cui si citano
Flubert e Stendhal. Immersi in serie di
prevalenza anglofona, è raro trovare riferimenti ad autori che esulano da quel
contesto culturale. Qui ci sono echi di Her,
Maniac, Black Mirror, Äkta Människor, e c’è molto materiale
fecondo di possibilità, però si assiste a un’ambizione narrativa e speculativa
mai davvero compiuta.
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