Sguazza in una visione
desolante dell’amore Made for Love, ma
alla fine questo sentimento emerge se non altro nel rapporto fra padre e
figlia. La serie (sull’americana HBO max, 8 episodi), basata sull’omonimo
romanzo di Alissa Nutting e con atmosfere alla Black Mirror, intende essere più ironica e umoristica di quanto non
sia riuscita a leggerla io.
Hazel Green (Cristin
Miloti, A to Z), dopo un rapido e
intenso corteggiamento, sposa Byron Gogol (Billy Magnussen) - e non serve un
gran salto di fantasia per pensare a Google -, magnate dell’innovazione tecnologica.
Dieci anni dopo, trascorsi in isolamento dal mondo esterno in un hub, fatto da asettiche
“scatole tecnologiche” che riproducono qualunque realtà si voglia ma prive di
odori, è infelice e soffocata da un perenne monitoraggio. Per dirne solo una, lui
attraverso i suoi assistenti le misura ogni volta le intensità degli orgasmi e vuole
che dia una valutazione di feedback. Non ne può più anche se finge che vada
tutto bene. Appena però Hazel scopre che Byron le ha impiantato un microchip
nel cervello, per tracciare ogni suo sentimento e movimento, prima tappa di una
tecnologia che dovrebbe connettere reciprocamente gli innamorati che vogliono
condividere tutto ed essere una cosa sola, scappa e finisce per essere accolta
dal padre Herbert (Ray Romano, Tutti
amano Raymond, Men of a Certain Age),
che ha una “relazione” con un manichino, una bambola del sesso.
Questa dark comedy ideata
da Alissa Nutting, Dean Bakopoulos, Patrick Somerville e Christina Lee, parte
dai temi della solitudine e di come la tecnologia ha cambiato e influenza il
modo in cui ci amiamo per esplorare argomenti come il consenso, la reciprocità,
e la natura dell’amore. Hazel è oggetto di una forma di stupro, nel momento in
cui le viene impiantato un congegno contro la sua volontà. Nell’esasperata
vicenda della protagonista di evidenzia come, se lì dove c’è reciprocità e
graduale scoperta gli uni degli altri c’è una forma di sana condivisione che è
una delle componenti dell’amore, il controllo dell’altro non è essere
innamorati, e sapere tutto di una persona, avere ogni singolo dato a
disposizione, non significa conoscere qualcuno. Quello è un processo, spesso
ineffabile e incontrollabile e fa parte della magia dell’esperienza romantica.
È tragico il frangente di
lei, dove già dal primo appuntamento in apparenza molto romantico si vede, con
l’occhio di poi, un tentativo di love
bombing da parte di un narcisista, ma è altrettanto funesta la posizione di
lui che, invaghito di una donna con cui crede di vivere un grande sentimento, la
manipola e la abusa senza riuscire a sperimentare la bellezza di un’emozione che
ha paura di vivere nella sua imprevedibilità e nella graduale volontaria apertura
che a volte ti lascia dietro a un confine che vorresti poter valicare, ma che non
sempre puoi. In fondo desidera amare veramente, ma non sa farlo.
La più drammatica è poi la
situazione di Herbert. Mi ha messo in difficoltà accettare quello che ho visto rappresentata come una “relazione”. Non la ritengo tale. Mi sono chiesta se sia un
atteggiamento giudicante da parte mia. Non considero il personaggio (la
persona) un pervertito per questo, così come viene additato da tutta la città,
ma non mi sentirei di considerarla una relazione legittima al pari delle altre.
Sarei in difficoltà perfino se fosse un robot senziente, ma lì capirei perché c’è
appunto possibilità di consenso e reciprocità, con il manichino no. È accettabile come gruccia,
come comfort aid, come le bambole terapeutiche
usate da persone con demenza o oggetti transitori di sostegno (come quella
presa in considerazione in Servant),
ma è diversamente una finzione, per come la vedo io. Utile, ma a patto di non
scambiarla per qualcosa che non è. Gli autori mi pare si tengano in proposito
in un buon equilibrio perché la figlia ritiene che sia un assurdo, ma lo
accetta nella misura in cui aiuta il padre, mentre lui vive questa finzione,
consapevole delle critiche e della riprovazione esterna. Le sue motivazioni
(che non spoilero) vengono chiarite in corso di via.
In fondo quello che
personaggi come Byron e Herbert mi pare dicano è che abbiamo bisogno più di
amare che di essere amati, che l’essenziale è poter riversare il nostro affetto
verso qualcuno. E, nel dipanarsi della storia, la possibilità di amore nei
rapporti umani c’è, non viene esclusa a priori.
Ci sono momenti di ilarità
cringe, soprattutto attraverso i
personaggi di supporto, come Herringbone (Dan Bakkedah, Life in Pieces), Bennet (Caeb Foote) e
Fiffany (Noma Dumezweni), attraverso cui si deride anche la cultura che rende tecnocrati
miliardari dei bambini viziati e insicuri che sono circondati da uno staff che
deve fare i salti mortali per compiacerli. Se, come credo, è voluto, mi sono
goduta che il delfino che nuotava nella piscina dei Gogol, su cui sono stati
fatti i primi esperimenti del microchip nella realtà della diegesi, sia stato
chiamato Zelda, il nome del personaggio interpretato dalla Miloti in A to Z. L’umorismo però è davvero
flebile, e personalmente è stata una
visione più sconfortante che altro.
La serie è stata rinnovata per una seconda stagione.
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