Ho trovato che Shōgun
(Disney+) sia stato ben realizzato e ben recitato e, tratto dal romanzo del
1975 di James Clavel basato su fatti storici (anche se i nomi rispetto agli
eventi reali sono stati cambiati), che fosse narrativamente ben costruito, ma
contemporaneamente lo ritengo sopravvalutato dalla critica genericamente
intesa che lo ha lodato profusamente e ricoperto di riconoscimenti – è stata la
serie più premiata nella storia degli Emmy: ne ha ricevuti ben 18, compreso
quello per la miglior serie drammatica, per cui ha vinto anche il Golden Globe,
che si è portata a casa anche per le altre categorie per cui era candidata.
Siamo nel 1600 in Giappone (si è
girato in giapponese, lì dove i personaggi lo erano, ed eventualmente in
inglese, ma le riprese sono state fatte in Canada) e con la morte del Taiko si
è quasi sull’orlo della guerra civile: il potere è diviso fra cinque reggenti
il cui compito è quello di proteggere l’erede, ma ci sono contrasti fra loro.
La nave olandese Erasmus naufraga su una penisola di pescatori, nella zona a
Sud di Edo. I membri dell’equipaggio vengono subito uccisi (uno viene bollito
vivo), ma non l’inglese John Blackthorne (Cosmo Jarvis, forse il meno
convincente fra gli interpreti) che chiamano l’Anjin, il “pilota”, quando non
semplicemente “il barbaro”. I cattolici locali portoghesi rappresentati dal padre
gesuita Martin Alvito (Tommy Bastow) insinuano che è un pirata per eleminarlo
da una potenziale concorrenza commerciale ̶ lui che è protestante e stava cercando di
scoprire quale fosse la rotta per il Giappone tenuta segreta dai portoghesi per
avere il monopolio. A dispetto di simili accuse, il feudatario locale Kashigi
Yabushishige (Tadanobu Asano) decide di risparmiarlo. Viene fatto condurre a
Osaka da uno dei reggenti, Yoshii Toranaga (Hiroyuki Sanada), che gli altri
accusano di tradimento perché è il più potente fra loro e lo temono, e questi lo
tiene al suo servizio imparando ad apprezzarne le doti. Toranaka accosta a John
come interprete la nobile Toda Mariko (Anna Sawai, molto migliorata da Monarch)
che, convertita alla fede cristiana, sa l’inglese. Fra i due nasce l’amore (una
scelta di finzione: i corrispettivi della vita reale non hanno mai avuto una
storia), oltre che un profondo rispetto, e John impara molto sulla cultura
locale che, fatta di regole e feroci fedeltà, spesso non riesce a comprendere
del tutto, soprattutto quando non sembra dar peso alla vita umana. Emblematico
è stato quando un giardiniere si è ucciso per un ordine banale (1.05).
Non ho
letto il romanzo, né visto la precedente miniserie che ne era stata tratta
negli anni ’80 che aveva Richard Chamberlain nel ruolo di Blackthorne, e quindi
non riesco a fare un paragone, anche se leggo che questa versione è stato molta
accurata rispetto al materiale di origine e che ci sono voluti molti anni – una
decina, pare - a traslare la storia sul piccolo schermo. Un pro è sicuramente
che si è evitato un eccesso di eurocentrismo, visto che oggidì siamo più
consapevoli di prospettive altre, voglio credere. Mike
Hale sul New York Times, che ben osserva che fra i punti di forza ha
il fatto di non essere “eccessivamente sentimentale o sensazionalista” scrive
che “se i creatori dello show mostrano una maggiore sensibilità agli
stereotipi, ciò non impedisce a questo ‘Shogun’ di mostrare i segni di un
familiare giapponismo cinematografico. È presente nella feticizzazione della
morte (ricorre il seppuku) e nel contrasto centrale tra l'individualismo
occidentale di Blackthorne e la devozione al dovere e al sacrificio dei personaggi
giapponesi. Il sesso è estetizzato; una cameriera è membro di una gilda segreta
di assassini (anche se il personaggio non è più una ninja a tutti gli effetti,
come nel 1980). Il dialogo continua a sbocciare in poesia”. Tutto vero, ma se
sono peccati sono veniali, perché in parte sono effettivi elementi di quella
cultura e sensibilità.
È un opulento
(leggi anche estremamente costoso) affresco di un periodo storico, tratteggia
con forza scontri di potere condotti con molta eleganza e diplomazia
apparentemente invisibile, lascia un intenso sottotesto di rivalità religiose
che mascherano l’interesse per “seta, oro e armi”, parla di strategia di
guerra, e delinea molto bene i suoi personaggi in un contesto che ha molto di
esotico, indubbiamente parte del fascino della serie, che introduce anche
espressioni giapponesi che impreziosiscono il dialogo. La forza sta nel
descrivere eventi epici, con intense eppur misurate interpretazioni che
mostrano passioni trattenute, dominate, secondo una classica tradizione del Sol
Levante. Luke
Winkie su Slate dice: “è divertente, violento, straordinariamente
sciocco, spesso incisivo e, soprattutto, totalmente leggibile: un'impresa
abbastanza rara che merita di essere sottolineata”. Concordo su quest’ultimo
aspetto nel senso che dà delle coordinate di base su quell’epoca, ma non ti
serve un’enciclopedia per capire “il patrimonio coloniale dei domini
protestanti e cattolici, il decoro militare giapponese, le sottili linee di
distinzione tra impero e shogunato, e così via”, e non si mette a farti
lezione, cosa che avrebbe appesantito ulteriormente la narrazione.
Viste le lodi sperticate che ha ricevuto dalla critica, mi sfugge qualcosa di questa creazione di Justin Marks e Rachel Kondo, perché la sensazione finale per me è comunque che questa miniserie sia stata ben realizzata, con tutti gli elementi al posto giusto, ma che in definitiva sia un polpettone con scarso impatto emozionale.
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