venerdì 29 agosto 2025

THE STUDIO: esilarante satira cinematografica

Si dice che solo chi ama veramente qualcuno o qualcosa può, conoscendolo a fondo e rispettandolo pur consapevole dei difetti, criticarlo e prenderlo in giro come si deve. Questo è sicuramente vero per The Studio (AppleTV+), una serie che professa un grande amore per il cinema e i suoi talenti, che conosce dall’interno, e proprio per questo riesce a metterne a nudo le idiosincrasie e le follie, ricavandone un umorismo pungente ma amorevole, creando una satira a un tempo riconoscibile anche a chi non è del settore, ma con un livello di lettura molto più pungente ed acuto per chi conosce i meccanismi interni dell’ambiente  che sono molto reali. La serie è dinamica, veloce, piena di energia. Parte da un’idea e con un effetto a valanga la fa diventare via via più grande fino a travolgere tutto. L’effetto è esilarante e ricorda un po’ Curb Your Enthusiasm per il modo in cui si vede passo dopo passo arrivare a rovinose catastrofi con l’accumulo di elementi piccoli e di buone intenzioni che vanno storti. Molti critici l’hanno subito salutata come un delle migliori serie comiche del 2025 e io mi associo.

Protagonista principale è Matt Remick, il dirigente di fittizi studi cinematografici, i Continental Studios, interpretato da Seth Rogen (Platonic, sempre per Apple TV+), che ha ideato il programma insieme a Evan Goldberg, con cui divide il lavoro alla regia, co-creato insieme anche a Peter Huyck, Alex Gregory, e Frida Perez. Sulla base di quanto riporta Variety, il progetto è liberamente ispirato alle esperienze di Rogen e del suo partner creativo di lunga data Evan Goldberg con la Sony, una collaborazione durata anni che è implosa in modo spettacolare quando la loro satira politica "The Interview" ha scatenato un hackeraggio di e-mail nel 2014 che ha offerto uno sguardo rivelatore e spesso dannoso sui meccanismi interni dell'industria.

Il presidente della Continental, Griffin Mill (Bryan Cranston – il nome nella finzione è un omaggio al ben diverso personaggio del film di Robert Altman The Player, interpretato da Tim Robbins) ha appena licenziato Patty Leigh (Catherine O’Hara, Schitt’s Creek), che dirigeva gli studio -  con quello che è stato visto come un evidente parallelismo con Amy Pascal, capo della Sony e produttrice di "Spider-Man", una delle vittime dell'hackeraggio di cui sopra – e promuove Matt con la richiesta che produca film di cassetta. In particolare gli affida il compito di sviluppare in un grande successo attira-pubblico un film dedicato al Kool-Aid Man, il personaggio immaginario di un marchio di bevande in polvere molto noto negli USA. Lui, che brama a quel ruolo, accetta pur dispiaciuto per Patty che è stata sua mentore, e pur nell’equilibrio che deve riuscire a mantenere: è un vero cinefilo che sogna di produrre film di grande qualità e merito artistico che vegano ricordati nella storia, ma è consapevole delle obbligazioni professionali che vedono nella grandi produzioni di IP (proprietà intellettuale) il maggior margine di profitto.  

Grande tensione, sofferenza per lui e materiale per l’umorismo, sono proprio legati a questa tensione fra produrre mega successi al botteghino, anche se qualitativamente scadenti, e dare spazio agli artisti, di cui si sente un mecenate; in una misura minore si ritiene lui stesso tale, perché sa riconoscere il talento e lo nutre, considerandosi un amico delle star. È costretto continuamente a scendere a compromessi, ma il suo cuore è pieno di passione e rispetto per la settima arte. In “L’oncologo Pediatrico” (1.06, la traduzione in italiano avrebbe dovuto essere al femminile!) che mi ha visto empaticamente partecipe, comincia a frequentare un’oncologa pediatrica. Invitato a una festa di colleghi di lei, tutti lo trattano con snobismo perché ritengono che il loro lavoro sia di maggiore pressione e valore di quello di uno che dirige uno studio cinematografico. Ignoranti, disprezzano e deridono qualcosa di cui non conoscono nemmeno le basi, non lo rispettano: lui, genuino, difende il proprio lavoro, arringa sull’argomento che cosa sia arte e che cosa non lo sia – tutti i film sono arte fintanto che esprimono emozioni umane, ritiene – un argomento di riflessione di filosofia estetica che probabilmente Tolstoj avrebbe condiviso (si legga il suo “Che cos’è l’arte?”).

A lavorare con lui c’è un team composto da Sal Saperstein (Ike Barinholtz), vicepresidente della produzione alla Continental e amico intimo di Matt, che non dimenticherete nella sua esilarante ribalta in occasione dei Golden Globe (1.08) – non è atteso oramai da tutti che ai veri Golden Globe qualcuno lo ringrazi? Vedremo. Ci sono poi Quinn Hackett (Chase Sui Wonders), la sua ex-assistente che lui promuove a dirigente junior e Maya Mason (Kathryn Hahn), la dinamica addetta al marketing, di grande intuito commerciale. Condividono con lui successi e delusioni. Come non trovare fantastico “Casting” (1.07), che riflette sui limiti e le difficoltà di essere politicamente corretti e non offendere nessuno, quando il team si interroga se far interpretare il Kool Aid Man ad Ice Cube sia razzista. Cercano di non esserlo. Cambiano tutto il cast e poi gli stessi autori, per finire a ritrovarsi con un problema completamente diverso. È stato uno dei miei episodi preferiti, che per la gran parte sono grosso modo autoconclusivi.

Il più lodato, e lo capisco per la sua intelligenza, è “Il piano sequenza” (1.02). Matt visita il set della produzione della regista Sarah Polley mentre lei sta cercando di realizzare un piano sequenza, con il risultato di disturbare le riprese, tutto girato in modo metatestuale proprio con quella modalità. Scrive acutamente The Hollywood Reporter: “Ciò che eleva The Studio a livelli di imbarazzo viscerale quasi insopportabili (complimenti) è il modo in cui è girato. Goldberg e Rogen, che hanno diretto tutti e dieci gli episodi di mezz'ora, privilegiano riprese lunghe e cinetiche che seguono i personaggi lungo i corridoi o dentro e fuori le sale riunioni. Anche se non raggiungono mai le proporzioni di quella ripresa di 18 minuti di un episodio di The Bear, riconoscerete un effetto simile. Senza il sollievo di tagli frequenti, siamo risucchiati direttamente nel continuo attacco di panico della vita di Matt. (...) Le riprese sgranate di The Studio, le palette di colori terrosi e i costumi di ispirazione retrò evocano l'era della New Hollywood per disegnare il contrasto tra le fantasie vecchia-scuola di Matt e situazioni da mal di testa molto moderni”.

La serie vanta anche un lungo elenco di guest star nel ruolo di se stessi. Solo per citarne alcuni: Martin Scorsese, Steve Buscemi, Ron Howard, Ice Cube, Charlize Theron, Adam Scott, Aaron Sorkin, Ramy Youssef, Jean Smart, Zac Efron, Quinta Brunson, Olivia Wilde, Lucia Aniello, Ted Sarandos, Matt Belloni, Zoë Kravitz…Quest’ultima è il fulcro di una spassosissimo equivoco (1.09) perché non si rende conto che un “buffet stile vecchia Hollywood” significa di droghe di vario tipo, per cui finisce involontariamente strafatta  la sera prima di un’importante presentazione.

La nevrosi di Matt sono ciò che lo rendono umano e creano connessione, e nel suo cercare di mantenere le redini e tutti contenti, spesso bastonato e umiliato, reagiamo a un umorismo molto pregnante, forse anche perché riusciamo a vedere il catartico ammettere le follie e le piccolezze dietro a un settore che nelle apparenze vorrebbe mostrare solo lustrini e magia.

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