Pur avendone apprezzati
diversi aspetti, non mi ha del tutto convinta la prima stagione di sei episodi di
Call the Midwife (Chiama/Chiamate la
levatrice), serie che ha avuto nella madre patria Inghilterra anche più
successo del popolarissimo Downton Abbey.
Ideata da Heidi Thomas (Upstaris
Downstairs), è ispirata alla trilogia di memorie di Jennifer Worth,
scomparsa pochi mesi prima dell’inizio delle riprese, il cui primo primo libro ha lo stesso titolo.
Siamo a Londra, anno
1957, quindi nel dopoguerra, e più specificatamente siamo nell’East End, ovvero
la zona più povera della città, letteralmente fra scaricatori di porto, in
molte occasioni. Con il sostegno del locale convento, la Nonnatus House, dove
le suore sono infermiere, alcune giovani donne lavorano come levatrici,
inforcando le loro biciclette e pedalando lì dove c’è più bisogno di loro per
fornire aiuto a partorienti e puerpere.
L’esordio della serie
coincide con l’inizio del lavoro per la ventiduenne Jenny Lee (una luminosa Jessica
Raine), che si è lasciata un amore impossibile alle spalle, e ha deciso di
dedicarsi interamente alla carriera. La sua voce da adulta (quella di Vanessa
Redgrave) fa alcune riflessioni su quello che accade, come fuori campo. Jenny è
un po’ ingenua e sprovveduta in alcune situazioni, ma non si tira indietro – il
suo comfort non è importante, ha un lavoro e lo deve fare. È
lei la vera protagonista, a cui fanno da contorno le suore presso cui va a
vivere (ma lei è esplicita nel suo disinteresse a prendere i voti) – Sister
Julienne (Jenny Agutter), la comprensiva e efficiente suora a capo della
struttura; Sister Evangelina (Pam
Ferris), la più energetica e robusta del gruppo; Sister Bernadette (Laura
Main), la più giovane e colta, che spesso istruisce le giovani levatrici; Sister
Monica Joan (Judy Parfitt), un’anziana eccentrica religiosa ora in pensione, e
con qualche problema di demenza senile, ma fra le prime a lavorare in questo
campo. E accanto alle “sorelle” che la guidano ci sono le colleghe più o meno
coetanee: la biondo-platino Trixie Franklin (Helen George), più festaiola; la
minuta Cynthia Miller (Bryony Hannah), che ha l’aria quieta di un topolino di
biblioteca; e quella che si potrebbe definire un “donnone”, Camilla “Chummy” Browne (miranda Hart), che pratica la
professione contro il volere della sua ricca famiglia e si innamora di un
poliziotto, Peter (Ben Caplan) .
Molti aspetti sono
apprezzabili nella serie, a partire dal fatto che si focalizza su una realtà
femminile che tanto peso ha avuto nella storia e che è rarissimo vedere rappresentata.
Sono storie di donne, per la maggior
parte, narrate sì attraverso le protagoniste, ma anche attraverso le “donne
di passaggio” quelle che vengono indicate come le vere “eroine”, ovvero le
madri. Ci sono successi, sconfitte e paure: il parto podalico, la morte per
eclampsia, la moglie che ha timore che il figlio esca nero quando il marito è
bianco, la ragazzina costretta a prostituirsi a cui viene tolta la bimba che
voleva tenere… ed è anche interessante come maternità e carriera, due temi che
vengono spesso posizionati uno contro l’altro quando si tratta di donne, vengano
concepiti in un medesimo contesto che non le mette in opposizione.
Con delicatezza e acume sono
state trattate questioni che raramente trovano spazio altrove, come la solitudine
o la vecchiaia, ma anche l’educazione alla salute, anche sessuale. Tutto quello
che riguarda il personaggio di Chummy poi, a partire dalla sua imponenza
fisica, è da applaudire, per il modo in cui è stato concepito, scritto e
interpretato: una donna vera, che sfida ogni stereotipo e che facilmente
avrebbe potuto diventare una macchietta ed è stata invece il cuore di momenti
di grande spessore. Anche la misura con cui sono stati trattati i rapporti
sentimentali mi ha fatto amare la serie.
Quello che ha fatto sì
che però non mi conquistasse del tutto è che talvolta le vicende rendevano un
po’ troppo pittoresche realtà crude. E la prima stagione si chiude con queste
parole di Jenny: “Nell’East End ho trovato grazia e fede e speranza, nascosta
negli angoli più bui. Ho trovato tenerezza nello squallore, e riso nella
sporcizia. Ho trovato un proposito e un percorso. E ho lavorato con passione
per la migliore ragione di tutte – l’ho fatto per amore”. Questo è sicuramente
il filo conduttore della serie, ma un amore inteso un po’ alla maniere delle
suore, si direbbe, quello perciò che almeno io difficilmente mi sento di
definire tale, ma che al limite intendo come un disinteressato coinvolgimento
nei confronti del benessere del prossimo. Questo sentimento secondo me la serie
lo rende bene, ma è come un’ombra insoddisfatta proiettata su ogni cosa. La
serie brilla quando sfugge questo atteggiamento “impostato” e diventa autenticamente
umana.
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