È
partita in modo forte Hostages, la
serie sviluppata per la TV americana da Jeffrey Nachmanoff e Alon Aranya e
basata su una serie israeliana dallo stesso titolo ideata da Omri Givon e Roten
Shamir. Costruita ad arco, e non con episodi autoconclusivi nè procedurale (a differenza dell’ideale
rivale diretto di questa scorsa stagione,The
Blacklist), ha permesso di affezionarsi ai personaggi.
La premessa delle vicende
era abbastanza semplice: l’agente dell’FBI Duncan Carlisle (Dylan McDermott, American Horror Story) vuole che la
dottoressa Ellen Sanders (Toni Collette, United
States of Tara) uccida il presidente degli Stati Uniti Paul Kincaid (James
Naughton) durante un’operazione, fingendo che sia accidentale, e per questa
ragione prende in ostaggio lei e la sua famiglia: il marito Brian (Tate
Donovan), la figlia Morgan (Quinn Sherphard) e il figlio Jake (Mateus Ward), e
pure il cane. A controllarli a vista insieme
a lui ci sono Archer (Billy Brown), Sandrine (Sandrine Holt) e il cognato Kramer
(Rhys Coiro).
I problemi dei membri
della famiglia Sanders non erano chissà che originali (il marito aveva un’amante,
la ragazza era rimasta incinta, il ragazzo aveva debiti di spaccio di droga da
pagare). Più interessanti erano i terroristi: Duncan non era chiaro da che cosa
fosse motivato ad azioni così gravi, finché non si scopre che fa tutto per Nina
(Francie Swift), la moglie morente, figlia nata da una relazione extraconiugale
del presidente che lui vuole ora morto; Sandrine fa tutto per poter finalmente
il figlio tutto per sé e ricostruirsi una vita; Kramer è il cuore tenero del
gruppo. La cosa più affascinante era o quanto meno sarebbe stato capire che
tipo di relazione si sarebbe instaurata fra i prigionieri e i loro carcerieri. Solo,
questi aspetti non sono stati in definitiva esplorati.
Questo thriller prodotto
da Jerry Bruckheimer, in soli 15 episodi, è rimasto tiepido nonostante vari
colpi di scena. Il tentativo di rendere umani gli aggressori è sfociato nel
risultato di cercare di farli essere dei “buoni a tutti i costi”, anche loro
pedine di un gioco più grande e comunque in fondo persone costrette ad azioni
cattive per delle motivazioni nobili. Sandrine è stata salvata in extremis nonostante
abbia tradito gli altri anche perché Kramer era evidentemente innamorato di
lei, e i due sono quelli che alla fine hanno mostrato più chiaroscuro, mentre il
fedelissimo Archer ha pagato con la vita la ribellione finale in una mossa che
sembrata più che altro dovuta al fatto che di lui non sapevano che farsene e un
morto in più ci stava bene.
La conclusione a lieto
fine, con tanto di cane scodinzolante, è suonata un po’ ridicola. Ellen ha
spiegato il problema alla moglie del presidente e la questione di fatto si è
risolta. Duncan si è costituito, ma suo commento in cui dice che avrebbe voluto
anche lui, come Ellen, non perdersi da un punto di vista umano ha, se
possibile, peggiorato un finale moscio.
La serie si è anche
lasciata guardare, ma siamo anni luce da 24
o Homeland, modelli a cui ben si
poteva aspirare in partenza.
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