Peccato per gli ultimi
cinque minuti della prima stagione di otto puntate: imbarazzanti e un
tradimento dei personaggi. E peccato per l’ultima puntata in generale,
abbastanza deludente ad esclusione di alcuni passaggi. True Detective rimane una grande serie che ha saputo reinventare un
genere.
Protagonisti sono due
detective della polizia della Louisiana, Martin Hart (Woody Harrelson) e Rusty
Cohle (Matthew McConaughey). La serie, antologica, per cui in stagioni successive ci saranno
altri personaggi e altre vicende, procede fra salti temporali fra il 1995 –
quando i due erano partner impegnati nell’investigazione della morte di una
giovane donna trovata nuda e legata ad un albero in una posizione particolare -
e il tempo presente, quando vengono interrogati da poliziotti, Gilbough (Michael
Potts) e Papania (Tory Kittles), intenti ad investigare su un caso simile che
immaginano collegato: Hart ora lavora nel settore privato e Cohle sopravvive a
elevate dosi di alcol.
La serie ha colpito ed
entusiasmato la critica per molte ragioni. Prima di ogni cosa ha un denso senso
filosofico (quello che ritengo tradito dal finale della serie), sostenuto da
una prosa tersa e tesa. Nel pilot Rusty, in una conversazione col collega che
cerca di conoscerlo meglio, dice:
“Guarda, mi considero un
realista, va bene? Ma in termini filosofici sono quello che viene chiamato un
pessimista. (…) Penso che la coscienza umana sia un tragico passo falso nell’evoluzione,
siamo diventati troppo auto-consapevoli. La natura ha creato un aspetto della
natura separato da se stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per
legge naturale. (…) Siamo cose che hanno l’erronea convinzione di avere un io,
una secrezione di esperienza sensoriale e sensazione, programmata con la totale
sicurezza che siamo ciascuno qualcuno, quando nei fatti tutti sono nessuno. (…)
Penso che la cosa onorevole da fare per la nostra specie sia rinnegare la
nostra programmazione, smettere di riprodurci, camminare mano nella mano verso
l’estinzione, un’ultima mezzanotte. Fratelli e sorelle che rinunciano a un
affare iniquo. (…) Dico a me stesso che sono
un testimone. La vera risposta è che ovviamente è la mia programmazione e manco
della costituzione per il suicidio”.
Questa dichiarazione
definisce un po’ il tono della serie, la cui sigla richiama fortemente quella
di True Blood, solo in una versione
più meccanico-industrial-urbana. Nella citazione io ho tagliato le parti di
Martin, che non crede alle proprie orecchie, e lo scambio risulta di fatto
anche umoristico. Il difficile rapporto fra i due e la loro individualità,
prima ancora del caso su cui indagano, sono sotto i riflettori: Hart padre di
famiglia con amante a latere, che la moglie Maggie (Michelle Monaghan) finisce per
lasciare; Cohle lupo solitario che ha una figlia morta piccola nel suo passato.
La recitazione è impeccabile.
Un altro aspetto
notevole della serie ideata da Nic Pizzolatto è un tocco vagamente artistico
della visione (che è quello che salvo della puntata finale: i rami intrecciati
che davano l’impressione di essere in un padiglione della Biennale di Venezia;
il riflesso “Cristico” di Cohle sul vetro della stanza d’ospedale dove si
trova, quasi un quadro). C’è dalla prima puntata. È
dai tempi di Twin Peaks che non si è
vista una morte tanto iconica, e al corpo ritrovato è stato dedicato tanto
tempo d’osservazione, quasi davvero fosse un’opera d’arte: l’attuazione di una
fantasia, pianificata, impersonale, un feticcio. Ci sono suggestioni
metafisiche e tangenti religiose e letterarie (quella più esplicita a The King in Yellow di Robert W. Chabers
– in proposito si legga, in inglese, qui
– ma anche Aspettando Godot di Beckett
o La Divina Commedia di Dante – in proposito
qui).
Una visione con un significato. Peccato, sul serio, per la fine.
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