Premesso
che il fulcro della riflessione di The
Leftovers - Svaniti nel Nulla, come già nella prima
stagione, è il dolore umano, e primariamente il dolore della perdita, ho
concepito la seconda stagione quasi come una antitesi fichtiana alla tesi della
prima stagione e a quella che mi aspetto essere la sintesi della prevista terza
e ultima. Forse è azzardato e lascio questa osservazione solo come suggestione.
I personaggi, che vivono “vite di quieta disperazione”, per dirla alla Thoreau,
in questo arco cercano un distacco, una separazione da quella che è posta come
la nota distintiva intrinseca della condizione umana, ovvero il lutto, qui
collettivo e permanente.
ATTENZIONE:
SPOILER SIGNIFICATIVI DI TRAMA IN QUESTO PARAGRAFO. Kevin Garvey (Justin
Theroux) e la compagna Nora Durst (Carrie Coon), insieme al bebè che era stato
lasciato davanti alla loro porta e alla figlia adolescente di lui, si trasferiscono a Jarden, in Texas, una
cittadina circondata dal parco nazionale di Miracle (Miracolo) e non toccata
dall’improvvisa dipartita che ha coinvolto il 2% della popolazione in tutto il
resto del mondo il 14 ottobre. Per questa ragione è considerato quasi un luogo
sacro, meta di pellegrinaggio, anche se per poterci abitare la procedura è
difficile e complicata, e solo coloro che hanno il permesso e indossano un
braccialetto specifico intorno al polso possono farlo. Ci sono guardie e
cancelli. Gli altri bivaccano nei paraggi, ammassati in tende e roulotte,
coinvolti in diverse attività – alcuni letteralmente messi alla gogna. Kevin ha
delle visioni di Patti Levin (Ann Dowd) la leader dei Guilty Remnants, i
Colpevoli Sopravvissuti, che lui ha ucciso, che lo tormentano. Si rivolge a un
“guaritore”, Virgil (Steven Williams) per liberarsene e riuscirà a farlo solo
morendo, sebbene solo temporaneamente (nello straordinario episodio capsula –
un trend del momento peraltro - “Assassino Internazionale”, 2.08). Nella nuova
location si è trasferito anche Matt (Chris Eccleston) con la moglie catatonica
Mary (Janel Moloney), anche se poi lui è costretto a rimanere fuori. Lei rimane
incinta e a fine stagione si sveglia. Vicini di casa di Kevin e Nora sono i
Murphy, John (Kevin Carroll) e Erika (Regina King), la cui figlia Evie (Jasmin
Savoy Brown), insieme a due amiche, scompare, pochi giorni dopo l’arrivo di Kevin e solo alla fine si scopre che ha inscenato lei la propria
dipartita per aggregarsi ai Guilty Remnants. Laurie (Amy Brennenan) ha lasciato
la setta e con l’aiuto del figlio Tom (Chris Zylka) cerca di far evadere da
quella prigionia ideologica altri membri. Quest’ultimo si propone come un
santone in grado di liberare le persone dal dolore abbracciandole ma,
considerandosi una frode, ci rinuncia. Megan (Liv Tyler) al contrario diventa sempre
più attiva nei Colpevoli Sopravvissuti - l’autore Damon Lindelof al
New York Times ha spiegato come
sia stato progressivamente più interessato all’idea della radicalizzazione all’interno
delle nascenti religioni - ed entra forzosamente a Jardin per distruggerla.
Se la
serie ideata da Damon Lindelof (Lost)
e Tom Perrotta nella prima stagione era basata sull’omonimo libro di
quest’ultimo, la seconda ha presentato materiale originale. La narrazione si è
fatta più vicina a quella di Lost,
più frastagliata, meno unitaria, più onirica e allucinatoria, a momenti
visionaria, straniante ed alienante. La “distruzione” di Jardin, dovuta non a
una paventata bomba, ma a una sovversione dell’idea di possibile isolamento dal
dolore, ha l’aspetto de “La Strada” di Cormac McCarthy (Il libro, non ho visto
il film). Il racconto è fortemente simbolico e a momenti espressionista, aiutato da
una colonna sonora intensamente evocativa e da un uso dell’audio parlato “a
intermittenza”, che temporaneamente scompare sopraffatto da altri codici
espressivi in alcune porzioni di scene. Si utilizzano filtri che danno un
valore pittorico alla cinematografia. Ci sono riferimenti biblici: uno per
tutti la “miracolosamente” incinta Mary - Maria perciò - che peregrina col
marito in cerca di un alloggio che nessuno riesce a trovarle in “Non c’è posto
nella locanda” (2.05). C’è un’ambizione diacronica che si espande alla notte
dei tempi: “L’asse del mondo” (2.01) debutta letteralmente ai tempi dell’uomo
(o forse dovremmo dire della donna) delle caverne. La scrittura sembra quasi costruita
come placche tettoniche e c’è uno slittamento narrativo e di piani di realtà che
non solo evoca fortissimamente Lost,
come dicevamo più sopra, e la paternità di Lindelof in questo caso è indubbia,
ma che in questo momento solo programmi come Mr Robot o Penny Dreadful,
mutatis mutandis, eguagliano, serie con
cui condivide l’aspirazione a dilatarsi nella spiegazione della vita tout
court.
“Non
capisco che cosa stia succedendo” dice John Murphy a Kevin Garvey in “Sulla via
di Casa” (2.10). “Nemmeno io” gli risponde lui. È una serie in cui
probabilmente si è destinati a rimanere frustrati se di vuole che tutto sia
perfettamente intellegibile. Bisogna più farne esperienza. La nuova sigla di
apertura (diversa perciò da quella della prima stagione) ha la canzone “Let the
Mystery Be” di Iris DeMent come traccia musicale. Il testo dice “Everybody’s
wondering when and where they all came from / Everybody’s worrying about where
they’re gonna go when the whole thing’s done / But no one knows for certain and
it’s all the same to me / I think I’ll just let the mystery be” ovvero “Tutti
si domandano quando e da dove vengano / Tutti si preoccupano su dove andranno
quando tutto sarà finito / Ma nessuno lo sa per certo e per me è tutto lo
stesso / Penso che semplicemente lascerò che sia un mistero”. Questo lasciare
che sia un mistero è una sorta di prerequisito epistemologico, per così dire,
nella fruizione delle puntate. Allo stesso tempo comunque la serie, proprio
come Lost, non si presta ad una
visione casuale, ma ingaggia se non proprio quello che Jason Mittell chiama un “fandom
forense”, quanto meno una visione fortemente interpretativa.
Forse,
come è stato suggerito (Den
of Geek!) la serie è almeno in parte una sorta di test di Rorschach
televisivo. Io ho dato un mio significato a quello che ho visto, e di fondo
questo è che tutti hanno subito una perdita, un dolore, un lutto, più o meno
intenso ed esplicito. Nessuno può ritenersi immune da questo, nessuno è
“miracolato” e nessuno può tenersi perciò al riparo dalla possibilità che
questo accada di nuovo in futuro, tanto più escludendo gli altri (come si cerca
di fare a Jardin, con il cancello, il ponte, le guardie…), o fingendo di avere
una soluzione (come faceva Tom). Ci sarà sempre chi ci ricorderà che non siamo
immuni (i Guilty Remnants). Accadono i
miracoli, talvolta (Matt e Mary), non sappiamo perché o per come, ma dai
terremoti della vita (e qui ce n’è più di qualcuno) non abbiamo scampo. Le sole
realtà che fanno la differenza, e che dobbiamo difendere con tutti noi stessi
dalla folla che avanza feroce e da chi ne mette in dubbio la legittimità (Nora
col bambino nella finale di stagione) sono la famiglia e la casa. Kevin è
costretto a cantare “Homeward Bound” (Diretto verso casa) di Simon &
Garfunkel nel karaoke dell’aldilà per salvarsi la vita in “Sulla via di casa”
(2.10) e in chiusura, ferito, è a casa che ritrova tutti i suoi affetti,
sebbene uno isolato dall’altro, nella modalità in cui la telecamera ce li
mostra.
Di The Leftovers ho preferito la prima
stagione alla seconda. Non di meno ci sono stati momenti di questa che ho
considerato autentica arte – non so come si possa vedere “Assassino
Internazionale” (2.08) e non pensare che la TV è arte. Si è davanti a un testo
denso, superbamente recitato, che lascia frastornati e pesti, ma che io lascio
trasudi in me anche nelle sue possibili incoerenze.
Nella
serie la dicitura “14 ottobre” viene utilizzata alla maniera dell’11 settembre,
ma è evidente che non c’è un significato politico o storico specifico in questo
caso. Il 14 ottobre è appunto il lutto qualunque esso sia. Questa stagione in
particolare invita a intendere la perdita proprio in senso molto più ampio del
solo perdere una persona (se ha un significato quello che Evie e le sue amiche
hanno fatto nell’inscenare la loro scomparsa è proprio quello). Chiudo perciò con
un’osservazione a latere sulla nuova sigla (sotto) che non centra propriamente
con la serie, ma a cui ho pensato spesso in questi mesi. I fotogrammi che si
susseguono sono varie foto da cui sono quasi “ritagliate” le persone svanite:
di loro si vede solo un contorno con dentro il vuoto. Nel documentario sulla
CFS/ME intitolato “Forgotten Plague”, una malata – una ex- radiologa di un
ospedale di Boston costretta a lasciare il lavoro a causa della patologia – dice:
“È
come se fossimo scomparsi. Come se fossimo spariti dalla vista e fossimo stati
dimenticati”. La trovo un’osservazione molto vera per tutti i malati di questa patologia
di cui soffro io stessa. È un’invalidità invisibile (perché non si vede e perché rende
i malati, spesso costretti a letto per anni, invisibili) e costringe le persone
ad essere assenti, a “perdersi la vita”, come spesso i pazienti si esprimono. Scompariamo
dalle attività del mondo. Mi ritrovo fortemente in quelle parole e sentendo e
leggendo quel passaggio non riesce a non venirmi in mente regolarmente questa
sigla, e con lei la serie.
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