martedì 12 aprile 2016

THE LEFTOVERS: la seconda stagione


Premesso che il fulcro della riflessione di The Leftovers - Svaniti nel Nulla, come già nella  prima stagione, è il dolore umano, e primariamente il dolore della perdita, ho concepito la seconda stagione quasi come una antitesi fichtiana alla tesi della prima stagione e a quella che mi aspetto essere la sintesi della prevista terza e ultima. Forse è azzardato e lascio questa osservazione solo come suggestione. I personaggi, che vivono “vite di quieta disperazione”, per dirla alla Thoreau, in questo arco cercano un distacco, una separazione da quella che è posta come la nota distintiva intrinseca della condizione umana, ovvero il lutto, qui collettivo e permanente.
ATTENZIONE: SPOILER SIGNIFICATIVI DI TRAMA IN QUESTO PARAGRAFO. Kevin Garvey (Justin Theroux) e la compagna Nora Durst (Carrie Coon), insieme al bebè che era stato lasciato davanti alla loro porta e alla figlia adolescente di lui,  si trasferiscono a Jarden, in Texas, una cittadina circondata dal parco nazionale di Miracle (Miracolo) e non toccata dall’improvvisa dipartita che ha coinvolto il 2% della popolazione in tutto il resto del mondo il 14 ottobre. Per questa ragione è considerato quasi un luogo sacro, meta di pellegrinaggio, anche se per poterci abitare la procedura è difficile e complicata, e solo coloro che hanno il permesso e indossano un braccialetto specifico intorno al polso possono farlo. Ci sono guardie e cancelli. Gli altri bivaccano nei paraggi, ammassati in tende e roulotte, coinvolti in diverse attività – alcuni letteralmente messi alla gogna. Kevin ha delle visioni di Patti Levin (Ann Dowd) la leader dei Guilty Remnants, i Colpevoli Sopravvissuti, che lui ha ucciso, che lo tormentano. Si rivolge a un “guaritore”, Virgil (Steven Williams) per liberarsene e riuscirà a farlo solo morendo, sebbene solo temporaneamente (nello straordinario episodio capsula – un trend del momento peraltro - “Assassino Internazionale”, 2.08). Nella nuova location si è trasferito anche Matt (Chris Eccleston) con la moglie catatonica Mary (Janel Moloney), anche se poi lui è costretto a rimanere fuori. Lei rimane incinta e a fine stagione si sveglia. Vicini di casa di Kevin e Nora sono i Murphy, John (Kevin Carroll) e Erika (Regina King), la cui figlia Evie (Jasmin Savoy Brown), insieme a due amiche, scompare, pochi  giorni dopo l’arrivo di Kevin e solo  alla fine si scopre che ha inscenato lei la propria dipartita per aggregarsi ai Guilty Remnants. Laurie (Amy Brennenan) ha lasciato la setta e con l’aiuto del figlio Tom (Chris Zylka) cerca di far evadere da quella prigionia ideologica altri membri. Quest’ultimo si propone come un santone in grado di liberare le persone dal dolore abbracciandole ma, considerandosi una frode, ci rinuncia. Megan (Liv Tyler) al contrario diventa sempre più attiva nei Colpevoli Sopravvissuti - l’autore Damon Lindelof al New York Times ha spiegato come sia stato progressivamente più interessato all’idea della radicalizzazione all’interno delle nascenti religioni - ed entra forzosamente a Jardin per distruggerla.
Se la serie ideata da Damon Lindelof (Lost) e Tom Perrotta nella prima stagione era basata sull’omonimo libro di quest’ultimo, la seconda ha presentato materiale originale. La narrazione si è fatta più vicina a quella di Lost, più frastagliata, meno unitaria, più onirica e allucinatoria, a momenti visionaria, straniante ed alienante. La “distruzione” di Jardin, dovuta non a una paventata bomba, ma a una sovversione dell’idea di possibile isolamento dal dolore, ha l’aspetto de “La Strada” di Cormac McCarthy (Il libro, non ho visto il film). Il racconto è fortemente simbolico e a momenti espressionista, aiutato da una colonna sonora intensamente evocativa e da un uso dell’audio parlato “a intermittenza”, che temporaneamente scompare sopraffatto da altri codici espressivi in alcune porzioni di scene. Si utilizzano filtri che danno un valore pittorico alla cinematografia. Ci sono riferimenti biblici: uno per tutti la “miracolosamente” incinta Mary - Maria perciò - che peregrina col marito in cerca di un alloggio che nessuno riesce a trovarle in “Non c’è posto nella locanda” (2.05). C’è un’ambizione diacronica che si espande alla notte dei tempi: “L’asse del mondo” (2.01) debutta letteralmente ai tempi dell’uomo (o forse dovremmo dire della donna) delle caverne. La scrittura sembra quasi costruita come placche tettoniche e c’è uno slittamento narrativo e di piani di realtà che non solo evoca fortissimamente Lost, come dicevamo più sopra, e la paternità di Lindelof in questo caso è indubbia, ma che in questo momento solo programmi come Mr Robot o Penny Dreadful, mutatis mutandis, eguagliano, serie con cui condivide l’aspirazione a dilatarsi nella spiegazione della vita tout court.    
“Non capisco che cosa stia succedendo” dice John Murphy a Kevin Garvey in “Sulla via di Casa” (2.10). “Nemmeno io” gli risponde lui. È una serie in cui probabilmente si è destinati a rimanere frustrati se di vuole che tutto sia perfettamente intellegibile. Bisogna più farne esperienza. La nuova sigla di apertura (diversa perciò da quella della prima stagione) ha la canzone “Let the Mystery Be” di Iris DeMent come traccia musicale. Il testo dice “Everybody’s wondering when and where they all came from / Everybody’s worrying about where they’re gonna go when the whole thing’s done / But no one knows for certain and it’s all the same to me / I think I’ll just let the mystery be” ovvero “Tutti si domandano quando e da dove vengano / Tutti si preoccupano su dove andranno quando tutto sarà finito / Ma nessuno lo sa per certo e per me è tutto lo stesso / Penso che semplicemente lascerò che sia un mistero”. Questo lasciare che sia un mistero è una sorta di prerequisito epistemologico, per così dire, nella fruizione delle puntate. Allo stesso tempo comunque la serie, proprio come Lost, non si presta ad una visione casuale, ma ingaggia se non proprio quello che Jason Mittell chiama un “fandom forense”, quanto meno una visione fortemente interpretativa.
Forse, come è stato suggerito (Den of Geek!) la serie è almeno in parte una sorta di test di Rorschach televisivo. Io ho dato un mio significato a quello che ho visto, e di fondo questo è che tutti hanno subito una perdita, un dolore, un lutto, più o meno intenso ed esplicito. Nessuno può ritenersi immune da questo, nessuno è “miracolato” e nessuno può tenersi perciò al riparo dalla possibilità che questo accada di nuovo in futuro, tanto più escludendo gli altri (come si cerca di fare a Jardin, con il cancello, il ponte, le guardie…), o fingendo di avere una soluzione (come faceva Tom). Ci sarà sempre chi ci ricorderà che non siamo immuni (i Guilty Remnants).  Accadono i miracoli, talvolta (Matt e Mary), non sappiamo perché o per come, ma dai terremoti della vita (e qui ce n’è più di qualcuno) non abbiamo scampo. Le sole realtà che fanno la differenza, e che dobbiamo difendere con tutti noi stessi dalla folla che avanza feroce e da chi ne mette in dubbio la legittimità (Nora col bambino nella finale di stagione) sono la famiglia e la casa. Kevin è costretto a cantare “Homeward Bound” (Diretto verso casa) di Simon & Garfunkel nel karaoke dell’aldilà per salvarsi la vita in “Sulla via di casa” (2.10) e in chiusura, ferito, è a casa che ritrova tutti i suoi affetti, sebbene uno isolato dall’altro, nella modalità in cui la telecamera ce li mostra.
Di The Leftovers ho preferito la prima stagione alla seconda. Non di meno ci sono stati momenti di questa che ho considerato autentica arte – non so come si possa vedere “Assassino Internazionale” (2.08) e non pensare che la TV è arte. Si è davanti a un testo denso, superbamente recitato, che lascia frastornati e pesti, ma che io lascio trasudi in me anche nelle sue possibili incoerenze.    
Nella serie la dicitura “14 ottobre” viene utilizzata alla maniera dell’11 settembre, ma è evidente che non c’è un significato politico o storico specifico in questo caso. Il 14 ottobre è appunto il lutto qualunque esso sia. Questa stagione in particolare invita a intendere la perdita proprio in senso molto più ampio del solo perdere una persona (se ha un significato quello che Evie e le sue amiche hanno fatto nell’inscenare la loro scomparsa è proprio quello). Chiudo perciò con un’osservazione a latere sulla nuova sigla (sotto) che non centra propriamente con la serie, ma a cui ho pensato spesso in questi mesi. I fotogrammi che si susseguono sono varie foto da cui sono quasi “ritagliate” le persone svanite: di loro si vede solo un contorno con dentro il vuoto. Nel documentario sulla CFS/ME intitolato “Forgotten Plague”, una malata – una ex- radiologa di un ospedale di Boston costretta a lasciare il lavoro a causa della patologia – dice: “È come se fossimo scomparsi. Come se fossimo spariti dalla vista e fossimo stati dimenticati”. La trovo un’osservazione molto vera per tutti i malati di questa patologia di cui soffro io stessa. È un’invalidità invisibile (perché non si vede e perché rende i malati, spesso costretti a letto per anni, invisibili) e costringe le persone ad essere assenti, a “perdersi la vita”, come spesso i pazienti si esprimono. Scompariamo dalle attività del mondo. Mi ritrovo fortemente in quelle parole e sentendo e leggendo quel passaggio non riesce a non venirmi in mente regolarmente questa sigla, e con lei la serie.   

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