Si può ben considerare
una sorta di riflessione metatestuale sulla poetica di Flesh and Bone (dell’americana
Starz), ambientata nel mondo della danza classica professionale, quello
che viene detto ai ballerini nell’episodio Boogie Dark (1.04): “Fuck pretty –
si fotta il bello”. Quello che in 8 puntate viene messo in scena è un viaggio
dall’infanzia al diventare donna, dall’innocenza a un risveglio del proprio
potere sessuale e della propria autoconoscenza. Si cercano autenticità,
coraggio e verità umana per portare la luce sui segreti oscuri, sugli spazi
sacri, su quei luoghi dell’anima che ci si tiene nascosti anche a se stessi; non
devono mostrare come si balla, ma perché si balla, come esseri umani che
pensano e che provano.
La limited series ideata da Moira Walley-Bechett (Breaking Bad), intitolando ogni puntata con un termine o una dicitura
presa in prestito dal gergo militare,
accompagnata da tanto di definizione, ci vuole mettere di fronte
all’idea che la vita è una guerra, che il balletto, con i suoi passi di una
precisione senza scampo, è una guerra: di bravure, di ego, di fatica, di interessi
contrastanti, anche di bellezza. Si tratta di una disciplina che richiede
grazia, precisione, rigore, arte (1.06), dove la perfezione è tantalicamente
sempre un passo più in là, ma che occasionalmente consente di raggiungere la
trascendenza. La serie la raggiunge nei momenti di balletto, assolutamente
mozzafiato, “Dakini” (1.08) in particolare, originale anche per come è stato
filmato, ma non solo. Delude però complessivamente.
Il suo limite più grosso è di essere forzatamente e solamente all’insegna di “mai
‘na gioia” e accanto al “cumulo di merda di futilità che chiami casa” (1.07) c’è
la spietata, in qualche caso mafia-russa-spietata, realtà del palcoscenico. Prima
dello spettacolo nella season finale,
ad esempio, qualcuno (non sapremo mai chi), mette del vetro nelle scarpette a
punta della protagonista, e lei per tutta risposta lo inghiotte e la vediamo
sanguinare dalle labbra. Va bene essere intensi e dark, ma qui si raggiungono
livelli di autolesionismo al limite del ridicolo. Il senso (cfr qui)
è che si può ottenere potere dal dolore, ma in qualche modo da spettatori non
si viene convinti.
ATTENZIONE SPOILER. Claire
Robbins (una perfetta Sarah Hay, in un ruolo che le è valso una nomination come
miglior attrice ai Golden Globe) è una ragazza con un’apparente innocenza alla “Bambi”,
riservata, piena di vergogna e disprezzo per se stessa, che adora i libri e se
li mette fisicamente addosso come una coperta perché la rassicurino. Il suo
punto di riferimento è un testo dell’infanzia, “The Velveteen Rabbit”
di Margery Williams con immagini di William Nicholson, la storia di un coniglio
di stoffa che diventerà reale solo se verrà amato a sufficienza, allegoria
esplicita del personaggio per come lei stessa si vede. Fugge da una situazione
di incesto a casa, prima solo intuita poi esplicitata (1.06), con il fratello
Bryan, un ex-marine che ora si prende cura del padre che abusa da sempre di lui
psicologicamente. Claire insegue il suo
sogno andando a New York e grazie alla sua sfolgorante bravura viene notata dal
direttore artistico dell’American Ballet Company (ABC), Paul Greyson (un
eccellente, mercuriale, capriccioso Ben Daniels) che la vuole far diventare una
stella e lustrarsi lui stesso grazie alla sua bravura. Se la nuova coreografa
Toni (Marina Benedict) insiste sull’aspetto emozionale delle performance, lui è
spietato sulla tecnica e domina con un estenuante gusto quasi sadico i suoi
sottoposti. Kiira (Irina Dvorovenko) è la prima ballerina che teme di essere
sostituita a causa di una ferita che non guarisce e che lei cerca di tenere a
bada con droghe antidolorifiche. Daphne
(Raychel Diane Weiner) agogna quella posizione per sé e finisce per “comprarsela”
finanziando la compagnia, non con il denaro del padre ricchissimo, come lascia
credere a tutti, perché lui ne osteggia le ambizioni di ballerina, ma grazie a
una donazione di un malavitoso russo con un locale di spogliarello. Jessica (Tina Benko), manager della compagnia,
è perennemente perseguitata dalla mancanza di denaro, sia al lavoro che nella
vita privata.
Claire divide una stanza
con una collega, Mia (Emily Tyra) che ha problemi di anoressia e cerca di
nascondere un’emergente sclerosi multipla che la costringerà ad abbandonare la
danza. Conosce un senzatetto, con la passione per lo scrivere e con problemi psichiatrici, Romeo (Damon
Harriman, che spreme il meglio da un ruolo un po’ romanticizzato), che vive
sotto il suo palazzo e che alla fine diventa “l’eroe” della situazione che, con
un’armatura di tappi di bottiglia (magnifico), “uccide il drago”, una storia
troppo prevedibile pur vedendosene il concepimento grandioso ed allegorico. Il
drago è il fratello di Claire, Bryan, che l’ha messa incinta di una figlia che
è stata data via alla nascita. C’è la guerra in Afghanistan nel suo passato e
orrori che vengono ricordati anche da un tatuaggio che porta sul petto e che
significa “infedele”. Lui è il mostro di cui Claire ha paura e che tiene
distante dalla sua camera chiudendosi con un lucchetto, ma nella storia però è ritratto
alla fine come una vittima al pari della sorella in una situazione in cui gran
parte delle responsabilità ricade sul padre di entrambi.
La chiusura vede Bryan
perire e Claire trionfare, in un montaggio di scene giustapposte. Anche se
appunto, senza gioia, in una vita che è agonia costante, ma anche “grit”, come
si direbbe in inglese, passione e perseveranza. Claire ha ottenuto quello che
voleva, e riesce a “diventare reale” anche se non ha l’amore di cui credeva di aver
bisogno, in fondo. Spettacolosa l’ultimissina scena, che mostra una protagonista
matura, finalmente autonoma e indipendente. Dopo il successo dello spettacolo,
è nel suo camerino, con una vestaglia che le copre il corpo nudo. Paul, con il
quale c’è sempre stato questo profondo rapporto di odio-amore professionale –
sono loro i poli energetici della serie -, in un misto di eccitazione e
invidia, la accarezza mentre si guarda e la guarda allo specchio e le domanda: “Dimmi
tutto quello che stai provando, dimmelo”. Lei, secca: “No”.
Sotto, la sigla.
Nessun commento:
Posta un commento