ATTENZIONE SPOILER. This is us (NBC) narra in parallelo le vicende
di quattro persone nate lo stesso giorno, e fra loro c’è un collegamento particolare.
Questo si sapeva già prima del debutto della serie. Alla fine del pilot si
scopre il collegamento, che una sapiente messa in scena ha saputo celare fino
in ultimo: le vicende non sono contemporanee, e le persone in questione sono un
padre e i suoi tre figli.
Jack (Milo Ventimiglia, Heroes, Gilmore Girls) Pearson, nel 1980, giorno del suo 36esimo compleanno,
diventa padre. La moglie Rebecca (Mandy Moore) aspettava 3 figli, concepiti in
occasione del 14esimo Super Bowl, ma uno muore al momento del parto e decidono
così di adottare un bebè nato quello stesso giorno, ma abbandonato dai genitori
biologici. Al giorno d’oggi, i tre figli sono adulti. Kate (Chrissy Metz) è una
donna che lavora come assistente per il gemello, che sin da bambina ha problemi
di seria obesità, stato che si riflette sulla sua autostima; ad un gruppo di
supporto di persone con problemi di peso incontra Toby (Chris Sullivan) che diventa
il suo ragazzo. Kevin (Justin Hartley), il gemello, è un attore che è diventato
famoso recitando il ruolo di “The Manny”, un au pair in una popolare sit-com; insoddisfatto della sua carriera e
della scarsa considerazione che hanno di lui professionalmente, cerca di dare
una svolta alla sua vita cercando ruoli più seri. Randall (Sterling K. Brown), che
inizialmente doveva essere chiamato Kyle perché i figli avessero tutti l’iniziale
K, ma che poi ha ricevuto il nome scelto dai genitori biologici, nero cresciuto
in un mondo di bianchi, è un uomo d’affari di successo; da bambino è stato
ritenuto più dotato del normale e mandato in una scuola apposita e da adulto
fatica a spiegare quello che fa (1.06) ma è un “weather trader”, e da quello
che si capisce è un operatore finanziario che si occupa di transazioni economiche
legate al tempo atmosferico; è sposato con Beth (Susan Kelechi Watson) da cui
ha due figlie, Annie (Faithe Herman) e Tess (Eris Baker); dopo varie ricerche
riesce a trovare il padre biologico, William Hill (Ron Cephas Jones), detto
Shakespeare, ex-tossicodipendente che ora ha un cancro allo stomaco al quarto
stadio, che accetta di vivere con loro per recuperare per quanto possibile il
tempo perduto.
Ideata da Dan Fogelman (Pitch, Galavant, e al cinema Cars
e Crazy, Stupid, Love), la serie è un
po’ il nuovo Parenthood e un po’ thirtysomething (Ken Olin è alla regia
della seconda puntata): atmosfera familiare e buoni sentimenti, ma non a tutti
i costi e senza ragione, ma nel tentativo di mostrare persone che cercano di
essere al proprio meglio, pur con gli errori, le insicurezze, le delusioni e le
batoste del quotidiano, con le gioie e i dolori della vita. Qui si trova originalità nel taglio inusuale
di guardare in contemporanea la vita di genitori e figli in modo sincronico, mostrando
che cosa devono affrontare nel momento corrispondente d’età anagrafica. È
illuminante e in questo modo si riesce a mette in una certa misura le persone
sullo stesso piano.
Si esplicita un ulteriore
livello della poetica in chiusura di “The Game Plan” (1.05). Kevin mostra alle
nipotine un dipinto fatto da lui che illustra quello che gli ha evocato il
copione dello spettacolo teatrale in cui è impegnato. È un
sovrapporsi si linee variopinte intrecciate fra loro nel modo più incasinato
possibile, in stile Pollock, per intenderci. Il senso è che la vita è piena di
colori e quando arriviamo aggiungiamo il nostro colore al dipinto. E anche se la
tela non è molto grande, va avanti sempre all’infinito. Ciascuno ha la propria parte
di quadro, ma ci siamo tutti ovunque. C’eravamo prima di nascere e ci siamo dopo
morti. E i colori che aggiungiamo sono aggiunti l’uno sull’altro, finché alla
fine non siamo nemmeno più colori differenti, siamo un’unica cosa, un unico dipinto.
Le persone che non sono più con noi perché non sono più in vita sono ugualmente
con noi, ogni giorno, e ciascuno ha il suo spazio e ci incastriamo anche se non
capiamo ancora come. Le persone che amiamo muoiono, ma questo, anche se non
possiamo più vederle o parlare con loro, non significa che non siano ancora nel
dipinto. Questo è il senso di tutto. “Non c’è morte. Non c’è tu, o me o loro. C’è
solo noi. E questa disordinata, selvaggia, colorata, magica cosa che non ha
inizio e non ha fine è proprio qui. Penso che siamo noi”. Infatti, come dice il
titolo della serie: questo siamo noi.
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