Regale, sontuosa,
elegante, precisa, misurata: può sicuramente vantarsi di essere tutto questo la
serie di Netflix The Crown, ideata e
scritta da Peter Morgan (The Queen e Frost/Nixon al cinema), incentrata sulla
vita personale e politica della regina Elisabetta II d’Inghilterra ed erede
ideale, come tipo di sensibilità, di Downton
Abbey. La prima stagione di 10 episodi sarà seguita da una confermata
seconda, ma il progetto totale è di 6 stagioni che dovrebbero ripercorrere in
gran parte tutto il suo regno, con cambi di attori principali in corso di via
(ogni due stagioni), presumibilmente per una questione di età degli interpreti.
Si tratta di una delle serie più costose di sempre, spettacolosa in quanto a
scenografie, costumi, cinematografia e valori produttivi in generale.
Si esordisce nel 1947 all’epoca
delle nozze di Elisabetta (Claire Foy) con Filippo (Matt Smith, Doctor Who). A regnare è ancora il padre
re Giorgio VI (Jared Harris, Mad Men)
che morirà di lì a poco, alla Corona dopo l’abdicazione del fratello re Edward
(Alex Jennings) che vi ha rinunciato per amore di Wallis Simpson (Lia Williams).
La giovane regina, consigliata anche dal primo ministro Winston Churchill (John
Lithgow), deve imparare a gestire la propria posizione, e con questo a
ridefinire anche il proprio ruolo nei confronti dei propri familiari - così come loro peraltro dovranno fare con lei -, con il marito in
primis, ma anche con la madre, la regina Mary (Eileen Atkins), e con la sorella, la principessa Margaret
(Vanessa Kirby), innamorata del colonnello Peter Townsend (Ben Miles).
Centrali nella
costruzione della narrazione sono questioni di filosofia del diritto: da chi
deriva il potere del sovrano, quali sono i suoi limiti, quali sono i rapporti
fra la Corona e il Governo… Si insiste molto sul fatto che, nella concezione
della monarchia britannica il potere rappresentativo della Corona viene da Dio:
lo ricorda alla figlia la regina Mary (1.04), lo ribadiscono in occasione della
solennissima cerimonia di incoronazione, mostrata in televisione, ma nascosta
nel momento sacro dell’unzione (1.05), lo ripete Elisabetta bambina, in un
flashback che la mostra impegnata a studiare diritto costituzionale (1.07). Indossare
il diadema è un peso fisico, ma soprattutto metaforico, elemento enfatizzano
anche nella diegesi, e il fardello che comporta è pure un concetto su cui si
insiste molto: re Edward è disprezzato e ritenuto egoista per non aver voluto
portarlo ed Elisabetta ritiene che lo zio avrebbe dovuto scusarsi con lei per
averla messa nella posizione di farlo, così come Churchill la istruisce a non
mostrare mai la fatica, ma a sorridere sempre di fronte al suo popolo (1.08).
In campo c’è la difficile negoziazione del potere fra le istituzioni, ma anche e
forse soprattutto l’equilibrio fra l’istituzione e la persona che la incarna
(Elisabetta, Churchill), con un ventaglio di situazioni collegate,
nell’intreccio fra vita pubblica e vita privata, che tenere separate comporta
sacrifici continui.
Elisabetta non può
andare a vivere dove vorrebbe così come non può scegliere il segretario
personale che vorrebbe, il principe consorte non può volare o fare alcune
manovre in volo senza il permesso del Governo (1.04), Churchill non accetta di
vedersi fragile in un ritratto che gli viene regalato dal Parlamento per i suoi
80 anni perché nella sua immagine vede anche rappresentato l’esecutivo (1.09).
Philip si sente minato nella sua mascolinità – una tematica che viene ripresa in
più occasioni - e si lamenta che la moglie gli ha tolto la carriera, la casa,
il nome (1.03); la sorella che vorrebbe sposarsi (1.06) deve rinunciare
all’amore con il suo innamorato (1.10), inizialmente di fatto esiliato fuori
dallo stato per due anni, perché il Gabinetto e la Chiesa non approvano; lo
zio, escluso dalla cerimonia di incoronazione e ostracizzato di continuo per
aver scelto l’amore, si esprime in più di un’occasione sulla crudeltà del
sistema e dei suoi parenti; perfino la regina Mary si rammarica di come sia
stata messa da parte proprio in un momento in cui avrebbe avuto più bisogno di
sentirsi occupata, dopo la morte del marito (1.08).
Apparenza e sostanza
viaggiano su due binari separati e per Philip è come il circo (1.08; 1.10). Quando
intraprendono un lungo viaggio nei Paesi del Commonwealth, lui la vive come un
equivalente di una tournee. La loro presenza è come dare una mano di vernice a
una carretta arrugginita per dare l’impressione che vada tutto bene anche
quando non è così. “È il nostro lavoro, è quello che siamo. La mano di vernice.
Se i costumi sono abbastanza imponenti, se la tiara è abbastanza brillante, se
i titoli sono abbastanza assurdi, la mitologia abbastanza incomprensibile,
allora va ancora tutto bene”. Un valore su cui si insiste molto è quello
dell’impassibilità e del silenzio, come modo per essere super partes e
astenersi dal prendere posizione. La regina rappresenta tutti e come tale non
deve mostrare la propria opinione. Non fare, non dire, restare neutrale:
difficilissimo. Questa “freddezza” e questo riserbo sono condivisi dalla
scrittura che sa utilizzare con molta finezza il non-detto, come è ben evidente
dal pilot in cui re Giorgio capisce che deve morire presto da una seconda
domanda al medico che non pone mai – quanto mi resta da vivere? - e che non ha
bisogno di porre, o dalla realizzazione della morte del padre da parte di
Elisabetta dal solo sguardo del marito (1.02).
Si tratta in fin dei
conti di una sorta di Bildungsroman di una regina, con anche delle riflessioni
su quello che è necessario per svolgere questo ruolo. Elisabetta, istruita
nell’infanzia esclusivamente in diritto costituzionale ed esperta per il resto
solo di cani e cavalli, capisce di non poter reggere una conversazione con i
leader di stato che è chiamata a incontrare, si sente inadeguata, rimprovera la
madre per averle impartito un’educazione insufficiente, assume un precettore.
Sa solo l’essenziale, ma è un processo di apprendimento costante. La serie, si
direbbe, crede nell’importanza di fare la differenza nel mondo, ma il modo in
cui si fa questa differenza, a volte è inaspettato. Con impegno, una ragazzina
che lo zio chiama Shirley Temple e la maggior parte di quelli che la circondano
considerano mediocre, ma di cui Churchill vede la perspicacia e la
potenzialità, riesce a condursi in modo esemplare. Una segretaria che legge a
guarda ammirata il primo ministro, compara i propri risultati a quelli dello
statista e si rammarica della differenza fra loro due, di fatto è morendo
durante la grande nebbia londinese del 1952 (1.04) che fa la differenza.
La recitazione è di
prim’ordine. Spiccano in particolare l’eccellente John Lithgow nel ruolo del
residente al 10 di Downing Street, potente e in declino nello stesso momento,
in parte motivato dall’ambizione in parte dal senso dell’onore e dell’impegno
di dover guidare la giovane regina prima che su di lui cada il sipario; poi Claire
Foy, fulcro di tutto quanto accade intorno a Buckingham Palace, in equilibrio
fra innocenza e scaltrezza, fra volere e dovere, fra umanità e iconicità; e se
non può non venire alla mente l’interpretazione al cinema di re Giorgio VI
interpretato da Colin Firth ne Il Discorso
del Re, Jared Harris non è sicuramente meno convincente. Vanessa Kirby,
Matt Smith… tutti fanno davvero un lavoro eccellente.
In chiusura (1.10) si
riprende in modo forte il tema conduttore di tutta la prima stagione. Ci sono
due Elisabette, una in contrasto con l’altra:
la persona e la regina. La persona deve sopprimersi per il bene del regno. Non respira
nemmeno, per usare le parole del fotografo che la immortala in un servizio
nella season finale. Il dovere ha la meglio sul resto (come sarà forzato
destino per Margaret e Peter). Tutto questo perché, come ricorda la regina Mary
alla figlia (1.02), “La Corona deve vincere. Deve vincere sempre”.
grazie Giada bella recensione esaustiva. Mi hai fatto venire voglia di vederlo (e dovrebbe essere quello il risultato di una buona recensione) !
RispondiEliminaGrazie.
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