Basato sul libro “Piccole Grandi Bugie” di Liane
Moriarty, Big Little Lies è stato previsto
come miniserie, quindi come una sola stagione autoconclusiva (7 puntate), ma
non sono pochi quelli che come me si augurano che alla HBO ci ripensino e
trovino un modo per continuare una serie che, liberata dall’omicidio che
alimenta la trama della prima stagione, ha comunque ampio potenziale per
continuare a indagare la realtà messa in scena con successo. Anzi, se vogliamo,
senza la parte investigativa, che è in fondo il pretesto per entrare nelle vite
di queste persone, la serie ne
guadagnerebbe anche, per quanto la parte di thriller sia stata decisamente
appagante. Qualche
speranza c’è (si legga qui
in proposito).
Jane (Shailene Woodley) è una madre single; rimasta incinta in seguito a uno strupro, si trasferisce nella piccola
comunità di Monterey (California) insieme al figlio Ziggy (Iain Armitage). Il
primo giorno di prima elementare, il piccolo viene accusato dalla compagna Amabella
(Ivy George) di aver cercato di strozzarla e la madre della piccola, Renata Klein
(Laura Dern), sposata con Gordon
(Jeffrey Nordling), vuole tenerlo a distanza. Dal momento che non ci sono vere
prove, e che Ziggy è un bambino sensibile che dice di non averlo fatto, la
madre le crede e riceve il sostegno e l’amicizia di altre due madri. Si tratta
di Madeline (Reese Whitherspoon), sposata in seconde nozze con Ed (Adam Scott),
dopo il divorzio da Nathan (James Tupper), risposatosi con Bonnie (Zoë
Kravitz), e con una figlia adolescente, Abigail (Kathryn Newton), dal primo
marito, e una bimba, Chloe (Darby Camp), compagna di classe di Ziggy, che si
dedica agli spettacoli teatrali della scuola; e di Celeste (Nicole Kidman),
madre di due gemelli, una ex-avvocatessa che per far piacere al marito Perry
(Alexander Skarsgård) ha rinunciato al lavoro fuori casa e che ha con lui una relazione violenta. I loro rapporti vengono messi in scena nella consapevolezza
che qualcuno di loro, non sappiamo chi, è stato ucciso: questo inquadra e
interrompe occasionalmente le vicende con i brevi flash di interviste che gli investigatori
fanno alle persone della comunità, che danno la propria opinione su quello che
sapevano.
Il cast di nomi di prim’ordine è indubbiamente un
catalizzatore di attenzione per questa serie che, di fatto, sarebbe stata forte
a sufficienza anche senza cotante star. David E. Kelley, ideatore e
sceneggiatore della totalità delle puntate (e la regia è tutta di Jean-Marc
Vallée), è sempre stato un autore di prim’ordine, basti pensare ai vari Picket Fences, Chicago Hope e The Practice.
Dopo Ally McBeal però era “andato un
po’ a male”, nel senso che si era fatto troppo spesso prendere la mano dai suoi
tic letterari e umoristici ed era diventato inguardabile, accumulando parecchi
insuccessi (Snoops, The Wedding Bells, The Brotherhood of Poland, New Hampshire, Harry’s Law, The Crazy Ones).
Qui, ora, sembra tornato in forma smagliante ed è facile ricordarsi quanto
acuto ha sempre saputo essere.
La serie esamina i rapporti di una piccola
comunità, di come piccoli eventi possano portare a una cascata conseguenze massicce,
di come qualcuno possa facilmente venire ostracizzato. Un tema fondante è
quello della violenza domestica, un argomento tradizionalmente molto difficile
ma portare sullo schermo trattato con realismo e intelligenza. Si mostra come
possa esserci un’escalation di violenza anche fra persone che magari in
partenza si amano genuinamente e di come non sia facile uscire da situazioni
simili anche quando dall’esterno sembrerebbe la cosa scontata da fare. Con
Ziggy frutto di uno stupro, rimane sempre in sottofondo la percezione che
forse, nella sua apparenza mite, il piccolo porti in sé i geni di qualcuno
violento, mentre i figli Celeste e Perry, che vivono in un contesto violento
anche quando i genitori fanno tutto per nasconderlo, magari crescono apparentemente
come bambini normali. Importano genetica o ambiente? Con la fine (1.08) a
questo viene in qualche modo data una risposta. Si è sottilissimi nel far
riflettere su diversi aspetti. Così come si parla molto di educazione dei figli – Abigail, ad esempio, decide di
mettere all’asta la sua verginità su Internet per dare i proventi ad Amnesty
International come forma di protesta per lo sfruttamento sessuale che c’è nel
mondo, cosa non incontra il favore dei genitori e crea contrasti fra i genitori
divorziati su come va gestito – e del ruolo dei genitori nella vita dei figli –
Renata e Jane alla fine sono due madri entrambe preoccupate del possibile
bullismo nei confronti dei propri figli-, di rapporti di coppia, di amicizia fra
donne. Si è onesti e pregnanti con un commento sociale e intimo psicologicamente
acuto. Si aggiungano scenari mozzafiato ed il gioco è fatto: irresistibile.
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