martedì 15 maggio 2018

PICCOLE DONNE: pars costruens (parte 2 di 2)


-       Continua dal post precedente -

Dopo una pars destruens, una pars construens di un programma che ho proprio apprezzato. Penso sia anche difficile re-immaginare una vicenda che ha tanta storia e stratificazioni sulle proprie spalle.

Le Piccole Donne immaginate da Heidi Thomas sono più adulte, e più vicine anche di età l’una alle altre, sembrerebbe. Dovrebbero avere 16, 15, 13 e 12 anni. Qui sono tutte giovani adulte. Per quanto mi rammarichi un pochino che non si siano mostrati tutti loro che mettevano in scena insieme i racconti scritti da Jo, le loro attività, il trascorrere tempo insieme e fare scampagnate e il frequentarsi con passatempi probabilmente più consoni all’età ora rappresentata è uscita benissimo comunque. Molto spesso si è mostrata Jo che dava la schiena a Laurie - o Teddy, come lo chiamava lei sola - preferendo concentrarsi sulla sua scrittura. In qualche modo rappresenta fisicamente l’indisponibilità di lei a un rapporto con lui, ma la loro dinamica è stata congegnata in modo molto accorto, così come quella fra Amy e Laurie. Si è stati attenti a costruire un “passato nell’infanzia” per loro, in modo che la loro storia d’amore sbocciata in viaggio in Europa avesse una base solida su cui fiorire. Nel film del ‘49 fanno dire ad Amy che “in Italia la sporcizia diventa colore locale”, cosa che mi ha sempre fatto un po’ ridere, ma mai la si mostra in viaggio. Qui sì, e quel poco che accade è ben realizzato. Nel complesso, il personaggio di Laurie è quello che ci ha guadagnato di più, rispetto a versioni precedenti che ho visto. L’ho trovato perfetto: un attore fisicamente attraente e che ha colto alla perfezione il personaggio. E una scrittura che lo ha supportato. Per la prima volta ho pensato che fosse un peccato che Jo non lo prendesse sul serio.

La prospettiva più adulta c’è anche stata nell’incorporare più che in passato la madre e il padre delle protagoniste. Una brevissima scena che mostra la preoccupazione di Marmee dopo che Jo ed Amy hanno litigato dipinge con una rapidissima pennellata la situazione di una donna che in tempo di guerra deve crescere quattro figlie da sola, con il marito lontano. O ancora, si empatizza quando scoppia in lacrime fa le braccia di Jo nel momento in cui si rende conto che Beth sta morendo e le parla del futuro che immaginava per loro. Il padre, grande assente nella storia, qui ha trovato un suo piccolo spazio. Ho apprezzato il libro “March” di Geraldine Brooks che ha vinto il premio Pulitzer e che ricostruisce la vita del padre distante, e a cui non ho potuto non ripensare. Nella miniserie serie lui in realtà ha un ruolo in fondo inutile, fuori da qualche conversazione con Jo che, appunto, poteva venire fatta meglio con il professor Bhaer. Il padre, un predicatore, alla fine poteva più proficuamente intervenire nei momenti in cui si toccato il concetto di Dio: da molti è stato notato che rispetto al libro il tono religioso è stato attenuato (ma forse qualcuno sovrappone morale e religione?), ma rispetto ad altre versioni io l’ho trovato invece più presente, anche se in modo delicato. In ogni caso, il tentativo di reinserire la figura paterna l’ho apprezzato.

La ritrosia della lentigginosa Beth è diventata quasi patologica qui, ma lei è ritratta meno inerme e più consapevole della sua sorte. E se nella prima puntata mi aveva un po’ irritato il fatto che lamentasse un mal di testa e la madre le rispondesse con un equivalente di “datti una mossa che tutte ne soffrivamo”, in seguito mi è parsa più adeguata, e realistica la rappresentazione della malattia per le conoscenze dell’epoca. Beth non si è mai ripresa fino in fondo dalla scarlattina, ma alla fine qui non si dà un vero e proprio nome a ciò di cui muore. Il suo rimane un personaggio positivo, e il rapporto privilegiato che ha sempre avuto con Jo è stato riscritto in modo efficace. Più debole invece il rapporto con nonno Lawrence.

Delle sorelle quella di cui si è sempre apprezzato meno il talento, perché era in ambito domestico e perché trovava realizzazione in quelli che erano i limiti che la società dell’epoca le imponeva, è stata Meg. Si dice che tutte le ragazze vogliano essere Jo, e si riconoscano in Jo. Io mi sono riconosciuta in tutte loro in un qualche momento della mia vita. Per via dei miei problemi di salute, ho finito per diventare Beth (meno la morte prematura, voglio sperare), ma alla fine quella nei cui desideri mi sono riconosciuta di più è probabilmente Meg. Qui l’ho trovata adeguata, ma in fondo non apprezzata al pari delle altre, come è sempre stato ovunque. Tuttavia, la durevolezza del romanzo è data proprio dalla capacità di mostrare uno spettro di donne che, pur diverse, in quanto ad aspirazioni, hanno tutte una propria dignità. Credo che sia vero quello che dice Sarah Elbert (la citazione l’ho trovata sulla pagina in inglese di Wikipedia), ovvero che si affrontano tre temi principali: “la domesticità, il lavoro e l’amore vero, tutti interdipendenti e ciascuno necessario al raggiungimento dell’identità individuale della sua eroina”. Delle sue eroine, direi io. E la serie questo lo trasmette, come trasmette un ideale di sorellanza realistico e vivo, successo notevole. Zia March, infusa di umorismo alla Violet di Downton Abbey, è uscita grintosa e intelligente, degna zia delle nipoti, testarda, ma umana.

Ho amato molto della serie il modo in cui è riuscita a trasmettere il senso del tempo. Se precedenti versioni sembravano condensare tutto, qui il passaggio degli anni, e il ripetersi dei Natali, ha dato un buon respiro alle vicende, giustificando anche la chiusura di cui parlavo prima. La ricostruzione ambientale e scenografica poi è stata sontuosa, non perché mostrasse lusso, ma per l’effetto cartolina, innevata o verdeggiante a seconda della stagione. Gli esterni e i panorami della città raramente hanno colto altrettanto nel segno. La regia di Vanessa Caswill ha fatto un bel lavoro con un buon uso della cinematografia e della luce.

La critica è divisa sul successo estetico della miniserie. Probabilmente ha ragione un commento che ho letto da qualche parte sul web, ovvero che nessuno sarà mai veramente soddisfatto di una rivisitazione di questa storia perché ciascuno ha un’idea molto personale di come dovrebbe essere. Sicuramente è così per me. È proprio con questa consapevolezza che cerco di aprirmi a questa rilettura che alla fine mi ha soddisfatta. Forse non sarà  proprio il mio Piccole Donne, ma credo renda giustizia a quei personaggi tanto amati.            

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