A qualche
riflessione sulla nuova versione in tre puntate per il la BBC1 premetto il
fatto che sono una grandissima appassionata della quadrilogia di Piccole donne (quindi anche “Piccole
donne crescono”, “Piccoli uomini” e “I ragazzi di Jo”) che ho visto in numerose
versioni, incluso un
anime giapponese. Quella che mi è rimasta nel cuore, e che probabilmente
nella memoria si sovrappone anche al libro, letto ormai moltissimi anni fa, è
quella cinematografica del 1949 per la regia di Mervyn LeRoy dove Elizabeth
Taylor interpreta Amy.
Questo
più recente adattamento (in Inghilterra è andato in onda il 26, 27 e 28 dicembre
2017) è uscito dalla penna di Heidi Thomas, di nuovo alle prese con una
narrazione corale femminile dopo il suo apprezzato Call
the Midwife. Siamo in Massachussetts (ricreata ai fini televisivi in
Irlanda), nel periodo della guerra civile americana, e vediamo fiorire in
giovani donne le quattro sorelle March, ovvero Meg (Willa Fitzgerald), Jo (Maya
Hawke, la figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman al suo debutto come attrice),
Beth (Annes Elwy) ed Amy (Kathryn Newton, Big
Little Lies), che vivono con la madre Marmee (Emily Watson), mentre il
padre (Dylan Baker) è al fronte. Meg lavora come istitutrice e sogna sopra ogni
cosa una famiglia, Jo aspira a diventare scrittrice e non ha interesse per le
relazioni sentimentali, la timida Beth ama suonare il piano ma presto si ammala,
Amy ha un grande talento artistico. La ricca zia Josephine (Angela Lansbury)
critica il fratello che antepone gli ideali agli interessi economici, ma in
fondo non è così aspra come sembra. Il vicino di casa, il signor Lawrence (Michael
Gambon), accoglie con sè il nipote orfano Laurie (Jonah Hauer-King) che diventa
presto un grande amico delle sorelle: innamorato per anni di Jo finirà per
sposare Amy, mentre Meg andrà in sposa all’istitutore di lui, John Brooke
(Julian Morris, Pretty Little Liars).
Beth muore, Jo guadagna pubblicando racconti e si innamora di un professore di
origine tedesca, il professor Bhaer (Mark Stanley), conosciuto in una breve
parentesi a New York.
Questa
nuova incarnazione del romanzo di Louisa May Alcott mi ha convinta e
appassionata, nonostante abbia diverse critiche
da fare. Partendo da queste ultime, devo dire che l’obiezione maggiore che
muovo al programma è di avere in qualche modo cancellato o comunque fortemente
sminuito la povertà delle protagoniste. Fin dall’incipit, quando Jo si lamenta
dell’assenza di doni a Natale, e Meg le risponde sottolineando quanto sia
brutto essere poveri, si mette sotto i riflettori nel libro la difficoltà
economica in cui si trovano le sorelle (di fatto anche edulcorata, pare,
rispetto a quella che vivevano le sorelle Alcott su cui sono ricalcate). Il
fatto di dover portare la loro colazione a persone ancor più povere di loro qui
non è vissuta come un grossissimo sacrificio; le ragazze non si lamentano di
avere vestiti vecchi e consunti non adeguati a una festa a cui devono andare, anzi
sono tutte in tiro; quando si recano a un ballo, non soffrono delle frecciatine
maligne delle coetanee che commentano con disprezzo il loro stato sociale. Meg
viene guardata dall’alto in basso da una ragazza perché lavora per guadagnarsi
da vivere, e le viene insinuato che la madre ha intenti da scalatrice sociale
nel far frequentare alle ragazze Laurie, e quando il padre si ammala e la madre
deve lasciarle per andare al fronte ad aiutarlo, non hanno così tanto denaro da
affrontare una grande spesa improvvisa, e Joe deve perciò comunque vendere i
propri capelli per racimolare la somma, ma sono comunque persone relativamente
benestanti. Ho l’idea che rappresentarle povere avrebbe alienato una parte del
pubblico contemporaneo, e mi dispiace molto, perché purtroppo la povertà è una
realtà molto presente anche nella vita attuale, e trovare il modo di metterla
in scena penso avrebbe fatto un gran bene. In fondo loro erano le ragazzine del
loro tempo che non potevano permettersi i vestiti alla moda e che per questo
subivano un po’ di bullismo da parte delle compagne.
La
versione cinematografica del ‘94 con Winona Ryder nel ruolo di Jo aveva il
pregio della consapevolezza che i romanzi nascevano come specchio
autobiografico dell’autrice, e incorporavano perciò anche gli aspetti
filosofici e culturali dibattuti nella famiglia di Louisa, il cui padre Amos Bronson era
un esponente di spicco della filosofia trascendentalista. Qui, si rimane più
superficiali. Non basta dire che Jo e il professor Bhaer si recano a un
convegno di filosofia e citare Kant e Hegel per dare spessore filosofico alle interazioni. Ho
apprezzato che, in modo inusuale nelle trasposizioni su video, si sia scelto di chiudere con una sorta di
flash-forward a quando ormai Jo e il suo innamorato sono sposati e hanno aperto
la scuola che è il fulcro del terzo e quarto romanzo del ciclo, ma allo stesso
tempo proprio per questo avrebbe avuto più senso dare un substrato
intellettuale un po’ più pregnante alle conversazioni, facendo sì che ci fosse
una base per intuire il senso di quanto vediamo poi. Una colonna portante della
storia è la concezione morale della vita. La scrittrice cilena Marcella
Serrano, scrivendo con “Arrivederci Piccole Donne” le vicende di quattro cugine
ispirate alle protagoniste, ha sottolineato come questo classico della
letteratura dell’infanzia sia ancora tanto importante per le donne perché le ha
accompagnate e le accompagna tutt’ora nella loro formazione morale. È anche
oggi un punto di riferimento. Lo penso anch’io, perché per me è stato così. Per
questo mi rammarico che non si sia prestata più attenzione a questo aspetto, se
non un po’ attraverso le conversazioni fra madre e figlia.
Nella
prima puntata ho trovato Jo un tantino maschilista. Nel libro e nelle versioni
precedenti che ho visto, l’aspirante scrittrice si lamenta sempre del fatto di
essere nata donna e non uomo per le opportunità mancate, però più come una
sofferta discriminazione che rivendica una parità, con uno spirito femminista.
Nell’originale le si rimprovera di essere un “maschiaccio”, qui mi pare diventi
più una sua critica alla presunta “debolezza” e alla “femminilità” delle
sorelle, che rimangono in qualche modo più contenute nel ruolo che la storia
permette loro di avere. Forse è una mia distorsione della memoria vedere il
personaggio come comunque fiero della propria femminilità, ma questa è la prima
versione che mi ha fatto percepire che Jo si sentisse di meno, non una pari a
cui è consentito di meno per ragioni arbitrarie. Per fortuna questo non
c’è stato nelle puntate successive, e ho visto in lei l’eroina indipendente e
femminista che ho imparato ad amare.
Un altro
elemento di rammarico per me è stato il personaggio del professor Bhaer.
Intanto, in un casting che ho giudicato impeccabile, ho trovato la scelta dell’attore
inadeguata, non perché gli mancasse talento, ma perché era totalmente inadatto.
E fra lui e Jo non c’era alchimia, erano completamente “sbagliati”. Sono state
fatte quelle scene fra loro perché bisognava, ma era evidente che non c’era
investimento alcuno. Ho sempre adorato quel personaggio che appare così tardi e
riesce a far capitolare Jo ai sentimenti, quando prima aveva sempre dichiarato
“io non sposerò mai”, per usare la buffissima traduzione italiana utilizzata nel
film di LeRoy. È naturale, sensato, organico, e molto romantico, con la scena
sotto la pioggia e l’ombrello. Qui non mi è piaciuta, l’ho trovata non dico
forzata, perché non lo era, ma priva del valore e dell’intensità che avrebbe
dovuto avere, perché mancava una vera costruzione precedente. Il confronto sul
valore della scrittura che Jo fa con il padre, avrebbe dovuto farle con lui,
tanto per cominciare. È chiarissimo che qui non si è #TeamBhaer.
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Continua in un post successivo -
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