Alan Ball è tornato e,
anche se la critica ha accolto in modo tiepido il suo nuovo “Here and now” (Qui
e Ora) per la HBO, diventato “Una famiglia americana” in italiano (su Sky
Atlantic), io l’ho trovato in forma smagliante e mi ha conquistato subito.
Siamo a Portland, in
Oregon. Greg Boatwright (Tim Robbins) è un insegnante universitario di
filosofia diventato celebre per un libro che porta il nome della serie. È in
crisi di mezza età e mette in dubbio i
principi che lo hanno guidato finora davanti a una società che lo delude. Si
sente spento interiormente e certa di trovar conforto fra le braccia di una
prostituta. La moglie Audrey (Holly Hunter) è un’ex-terapeuta che lavora in un
ambiente scolastico su progetti di empatia per insegnare agli studenti come
comunicare meglio fra loro. Progressisti culturalmente e socialmente impegnati,
hanno voluto una famiglia multirazziale e hanno tre figli adottivi, ormai
adulti, e una figlia biologica adolescente. Ashley Collins (Jerrika Hinton),
proveniente dalla Liberia, è sposata con una figlia e ha ideato e gestisce un
sito web di acquisti di capi d’abbigliamento. Duc (Raymond Lee), adottato dal
Vietnam quando aveva 5 anni, è un life
coach di successo che ha grossi problemi irrisolti di sessualità: si
mantiene casto perché tormentato dai ricordi della madre biologica che si
prostituiva. Ramon (Daniel Zovatto), adottato da un orfanatrofio della
Colombia, studia design dei videogiochi, la sua grande passione, e ha una
relazione con un uomo che consoce ancora poco, Henry (Andy Bean). Comincia ad
avere allucinazioni e a vedere ovunque il numero 11. La madre, che ha un
fratello schizofrenico, pensa possa avere lo stesso problema e lo spinge a
vedere uno psichiatra, il dottor Farid Shokrani (Peter Macdissi), di origine
iraniana, con il quale Ramon stabilisce subito una connessione molto forte,
legata anche al difficile passato dell’uomo. Kristen (Sosie Bacon), la sola
figlia biologica, è al terzo anno di liceo e fa le sue prime scoperte di vita
adulta. Stringe amicizia in particolare con il compagno di scuola Navid (Marwan
Salama), figlio di Farid, che è gender-fluido e sebbene al mondo esterno si
presenti come maschio, in casa preferisce vestirsi da donna.
Quello che viene messo
in scena in questa serie è uno spaccato dell’America, con da un lato una realtà
sempre più multietnica e portatrice di aspirazioni molto variegate, dall’altro
un ambiente intollerante che si percepisce come una costante minaccia; c’è
riflessione sul senso profondo della vita, sia come suo significato che su come
andrebbe vissuta; c’è riflessione sull’empatia, in modo particolare come modo
di superare le divisioni e su possibili alternative; c’è disillusione; c’è un
meditazione sull’età e il diventare vecchi – il diverso stadio della vita in
cui si trovano i vari personaggi si percepisce; c’è la percezione di come
prospettive diverse facciano fare esperienza di realtà apparentemente identiche
in modo diverso: penso a come vivono le due sorelle un loro arresto. Ashley,
che è nera, deve sopportare il sospetto che la borsa che ha, solo perché
costosa, sia rubata; quando la perquisiscono, la palpeggiano. Nei confronti di
Kristen invece c’è molto rispetto.
Le tematiche non
emergono solo in via metaforica o obliqua, ma vengono anche verbalizzate in
modo specifico. Penso che possa essere un valore aggiunto, e qui lo è
sicuramente, perché certi argomenti si affrontano nella vita quotidiana anche a
parole, e perché è bene sollevare certe discussioni esplicitamente e aggiungere
“prospettive osservazionali” alla conversazione, con questo intendo la
possibilità da parte dello spettatore di ascoltare alcune opinioni assistendo
contemporaneamente agli scampoli di esperienza da cui nascono. Si ricompone la
scollatura fra pensiero e vita, cosa che è coerente anche con il fatto che uno
dei protagonisti è un docente universitario di filosofia, e si pongono alcune
riflessioni anche sul ruolo di questa disciplina nella realtà contemporanea (la
riunione di facoltà e la conversazione con la figlia in 1.05 ne sono un buon
esempio).
Mi ha molto colpito il
modo in cui si è stati in grado di mettere in scena il contrasto fra i
familiari e i professionisti di un paziente con problemi di natura psichiatrico-psicologica.
Qui la madre, ex-terapeuta lei stessa e con un familiare che soffriva di
schizofrenia, insiste per un intervento immediato farmacologico drastico. Lo
psichiatra, di converso, pur prescrivendo poi anche dei farmaci, ci va più
cauto e non vuole affibbiare troppo frettolosamente al proprio cliente una
etichetta diagnostica. E c’è proprio uno scontro a parole con e fra i
familiari, cosa veramente rarissima da vedere, con il professionista che dice
di non essere un medico, ma un terapeuta. Che ci siano prospettive di questo
tipo è rinfrescante.
La serie prende una via onirico-sovrannaturale,
metafisica e mistica, al di là anche di un certo realismo magico che poteva già
caratterizzare “Six Feet Under”, e quella è di più difficile inquadramento, ma
è un viaggio in cui ci si lascia trasportare fiduciosi della voce autoriale il
cui obiettivo intende essere quello di sollevare quesiti lasciando che non vengano
spiegati necessariamente, nella convinzione che i misteri nella vita siano
molti, e non siamo in grado di coglierli intellettualmente tutti. “Stiamo
vivendo una nuova realtà” dice la tagline dello show. Il tema centrale è
davvero la crisi di identità personale e nazionale, e il senso di
disorientamento che vi si accompagna. La serie sembra essa stessa un po’
confusa a momenti, su quello che vuole fare ed essere, e ha spazio per crescere
e sviluppare i propri personaggi al di là dell’idea che ciascuno di loro
rappresenta, ma in un certo senso sembra condividere la sorte dei personaggi
che racconta.
Mi auguro venga
rinnovata per una seconda stagione.
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