Premetto che ho un
passato da Trekkie, anche se per me Star
Trek è sempre stato la serie classica, non le altre incarnazioni: se la
prima è stata quasi una religione, con le altre ho una familiarità solo
superficiale. Star Trek: Discovery è
stata in questa prospettiva un esperimento interessante. Credo che sia riuscito
ad allargare la percezione dello spettatore di quello che questo mondo è e
dovrebbe essere, in fondo in qualche caso (ma non in conclusione di stagione)
anche tradendo lo spirito ultimo, ottimista e pacifico, che lo anima. Se con la
“parodia” di The Orville, che ho
stroncato ma poi in cuor mio rivalutato perché coglie in pieno la filosofia
autentica della serie originaria, ho avuto una iniziale resistenza, qui ho
avuto al contrario una reazione immediatamente positiva, pur sentendo che non
si era pienamente in sintonia anche quando aderiva comunque al canone: ma va
bene così. Ciascuno ha una propria idea di quello che Star Trek dovrebbe essere, ma sta bene essere trascinati fuori
dalla propria “zona di conforto”.
Ideata da Bryan Fuller (che
ha lasciato presto, anche a causa dei suoi impegni con American Gods) e Alex Kurtzman per CBS All Access e disponibile sul
mercato internazionale su Netflix, l’ultima nata del franchise è ambientata
circa 10 anni prima della serie originaria e nel corso della prima stagione si
esamina la guerra fra la Federazione e i Klingon, seguendo l’equipaggio della
USS Discovery.
Michael Burnham (Sonequa
Martin-Green, The Walkind Dead, in un
ruolo che incarna alla perfezione), la protagonista principale – Fuller ha il
vezzo di chiamare con nomi maschili i suoi personaggi femminili, scelta che non
posso dire mi faccia impazzire -, è un
ex-primo ufficiale della USS Shenzhou che, ammutinata contro il suo capitano,
viene arruolata dal capitano Gabriel Lorca (Jason Isaacs, Harry Potter) sulla sua nave. È una umana che, in
seguito alla perdita dei genitori, è stata cresciuta secondo la cultura
vulcaniana dal padre adottivo Sarek (James Frain, Orphan Black), cosa che la rende sorella adottiva di Spock. Si
sente responsabile dello scoppio della guerra e si adopera perché vi abbia
fine. I Kilingoniani, ispirati dal leader T’Kuvma, in un progetto in seguito
portato avanti da Voq e L’Rell (Mary Chiefo), vogliono riunire il loro impero e
sconfiggere la Federazione.
Sulla Discovery lavora
come primo ufficiale il primo kelpiano della flotta, Saru (Doug Jones) che ha
sul retro della nuca dei gangli che si eccitano in caso di pericolo, caratteristica
essenziale per lui che appartiene a una specie di predati: ammetto che è il mio
preferito. Paul Stamets (Anthony Rapp) è l’ufficiale scientifico, esperto di
astromicologia, che porta a scoprire un nuovo modo di navigazione che utilizza
particele di micelio; è il primo personaggio apertamente gay nella storia di Star Trek e ha una storia con
l’ufficiale medico Hugh (Wilson Cruz). A
diventare presto amica di Michael è Sylva Tilly (Mary Wiseman), una cadetta
all’ultimo anno dell’accademia, mentre suo interesse sentimentale diventa il
tenente Ash Tyler (Shazad Latif).
Con showrunner Grechen J
Berg e Aaron Harberts, la narrazione, più dark di quanto siamo abituati e
fortemente serializzata in un primo arco compatto, è molto ricca di azione e di
colpi di sena, ben strutturati e calibrati, e da lasciare veramente con il fiato
sospeso. Poi, in sintonia con la serialità più recente, si è poco sentimentali
nei confronti della sorte dei protagonisti. Se serve meglio la narrazione la
loro morte, non la si esclude. Il cast è forte. Di principio si sostengono gli
ideali di diversità e giustizia e si mette in guardia contro l’arroganza
culturale mostrando il rischio di fraintendimenti e la difficoltà a conoscersi
e integrarsi, con una funzione di commento velato alla realtà contemporanea
anche, e una riflessione sulle politiche di identità. Lungo la via ci si perde in
più di un’occasione: vedere l’equipaggio assentire con soddisfazione per il
fatto che si sono dimostrati bravi guerrieri in considerazione del fatto che
sono in realtà scienziati fa alzare più di qualche sopracciglio: nella gioia di
aver vinto, questo sarebbe contemporaneamente qualcosa di cui rammaricarsi; l’abbondante
tempo trascorso in uno strip club / bordello nell’ultima puntata, le troppe
scene con i klingon… Si chiude con un sottofinale un po’ troppo retorico e smaccato,
che comunque ci sta, e una ultimissima scena è emozionante e toccante, con un homage che commuove. Nel complesso una
serie che, almeno nella sua prima stagione, non è imperdibile, ma è godibile.
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