È
anemico e privo di magia A Discovery of
Witches, descrizioni non proprio incoraggianti considerato
che si tratta di una serie con vampiri e streghe. Già dal pilot sembrava un
trippone a tinte rosa alla maniera dei film per la TV basati sui libri di Rosamunde
Pilcher o affini, ma alcune recensioni dicevano che la narrazione cominciava a
prendere quota al terzo episodio (sarà che c’è il primo bacio fra i
protagonisti) e ho tenuto duro e continuato la visione. Talvolta programmi
claudicanti all’inizio svelano il proprio potenziale in corso di via, a darci
un’opportunità. Non in questo caso.
Basata sulla trilogia All Souls
di Deborah Harkness - la prima stagione
corrisponde al primo libro, “Il libro della Vita e della Morte” in italiano - questa
produzione britannica vede come protagonisti una potente strega riluttante ad
usare i propri poteri, Diana Bishop (Teresa Palmer), professoressa di storia a
Yale che studia alchimia ad Oxford, e Matthew Clairmont (Matthew Goode),
vampiro ultracentenario e professore di biochimica. Diana, inconsapevolmente,
facendo ricerca alla Biblioteca Bodleiana, riesce a riesumare un antico testo
magico che tutti vogliono, Ashmore 782, e finisce per attirare l’attenzione di
Matthew. I due, travolti dall’attrazione e dalla passione, si innamorano
perdutamente, nonostante ci sia uno specifico divieto a che streghe e vampiri,
fra cui ci sono contrasti che si perdono nella notte dei tempi, intreccino
legami.
La narrazione e i dialoghi sono scialbi e tediosi, e a dispetto degli
studi della protagonista, non c’è alcuna alchimia fra lei e la sua controparte
maschile, un vero peccato mortale lì dove quella è in fondo la vera raison d’être che giustifica le
intricate vicende di demoni assortiti e le preoccupazioni della potente “congregazione”. Quando fanno l’amore per la prima volta è
tutto molto tiepido e dimenticabile. Ci si rifà un pochino nel settimo
episodio, dove la regia di Sara Walker mette un po’ più di passione e verve nel
rapporto intimo fra i due. La puntata tutta si eleva un poco dalle precedenti,
con Diana che, insieme alle zie, “rivede” i suoi genitori, tragicamente
scomparsi, e fa delle scoperte sul suo passato.
In apparenza la serie è patinata, con gloriosi setting scenografici, a
partire dall’italianissima Venezia, ma non si può nemmeno dire che la
cinematografia riesca ad elevarli al di là di un banale sfondo descrittivo di
servizio. La recitazione è dignitosa per non dire proprio buona (penso alle zie
in particolare), ma l’unico a spiccare è solo Matthew Goode che non solo è
attraente e affascinante, ma mostra un maggiore investimento nel personaggio.
Diana in proporzione è spenta. Non credo sia solo una mia risposta ormonale giudicare più convincente
lui di lei.
C’è poco da cercare metafore e sottotesto qui - si potrebbe facilmente
parlare di “miscegenation”, mescolanza razziale cioè, amicizia, potere – perché
è il testo proprio ad essere manchevole. La trama c’è, ma non c’è molto di più
che si possa dire. La prima stagione termina con un grosso cliffhanger destinato a risolversi con la seconda stagione, che
però personalmente non sarò così masochista da guardare.
Per utilizzare un termine davvero tecnico: una lagna.