Gli autori di Forever (Amazon video, 2018, non
l’omonima serie della ABC del 2014), Alan Yang (Master of None) e Matt Hubbard (30
Rock), avrebbero chiesto ai critici televisivi di non rivelare di che cosa
parla il loro programma, cosa che, se nel suo significato più profondo lo
troviamo in nuce nel pilot, nel suo
aspetto più prosaico di ambientazione e trama non si evince nemmeno da lì. Come
per gli spoiler, specie in questo nuovo panorama televisivo, non è chiaro che
tempi di scadenza abbia una simile richiesta, ma essendo questo un mio primo
post sulla serie, preferisco aderire alla richiesta. Provo solo a dare un indizio: “forever”
significa “per sempre”; che cos’è che a questo mondo è per sempre? Questo forse
potrebbe indirizzare nel verso giusto.
Per i primi cinque minuti
di “Together Forever” (1.01), con le sole immagini senza audio, seguiamo la storia
di una relazione, quella fra Oscar Hoffman (Fred Armisen, Portlandia), un
dentista, e June Hoffman (Maya Rudolph, Saturday Night Live),
un’impiegata. Nell’ultima tranche vediamo atti che si ripetono sempre uguali
anno dopo anno, come cambiano di significato. Per dodici anni Oscar e June
hanno condotto la stessa vita che ora rende lei insoddisfatta, a partire dalla
vacanza al lago a cui quest’anno decidono di rinunciare in favore di una sugli
sci. Questo cambierà la loro vita in modo inaspettato. E farà loro conoscere
Kase (Catherine Keener, The Kominsky
Method), ex-impiegata del governo che diventa amica di June, e Mark (Noah
Robbins), un adolescente vagamente ribelle.
L’interrogativo
principale che sottende alla narrazione è se sia bella o interessare una cosa
che è per sempre, sempre uguale. Si ragiona sul senso della ripetizione, su
come ci imprigioni, su come, bloccati negli stessi meccanismi, rischiamo di
vivere una vita in trappola, che ci impedisce di trovare la felicità, e di come
andiamo in cerca a volte di ciò che rompe lo schema, che ci salva dalla noia
del tutto uguale. Oscar e June sembrano davvero condannati per l’eternità a
fare le stesse cose: lui il cruciverba, lei lavorare la terracotta (e qui avete
un altro piccolo indizio su che cosa riguarda la serie, se pensate a un
popolare film che ha fatto del lavoro dell’argilla una delle sue scene
iconiche), insieme fare una passeggiata, salutare i vicini (con uno che immancabilmente
tosa l’erba del proprio giardino, l’altra che pota la siepe)… quando arriva la
nuova vicina Kase c’è un senso di eccitazione e di possibilità.
Ci si sofferma a
riflettere su come la ripetizione possa essere sì rassicurante, ma anche vincolante
– di questo diventa il simbolo la trota alle mandorle che Oscar prepara sempre
per June - e su come l’abitudine possa diventare una
schiavitù. Si medita anche su di che cosa si va in cerca nella vita: “Oceanside”
(1.07) ha a momenti il gusto di una storiella zen; e sulle occasioni mancate
della vita: in particolare con il personaggi di Oscar, e di Andre e Sarah. Questi
ultimi hanno una puntata che porta il loro nome (1.06) a loro dedicata, con una
digressione narrativa alla maniera in cui è stato anche fatto anche da Master of None. E in fondo con questo
episodio la serie, nella visione, costringe lo spettatore a fare quello che
predica, ovvero a guardare non sempre e solo gli stessi personaggi, ma nuovi,
mostrando che c’è anche altro che potremmo perderci se guardiamo sempre e solo
quello a cui siamo abituati. È contenuto che diventa stile, è monito
allo spettatore, è lezione di vita: fare cose diverse; rompere la routine,
uscire dalla nostra zona di conforto.
In una serie che parla
di matrimonio e felicità e intimità, la conclusione non è di fatto che si
debba rincorrere solo quello che in un
dato momento è nuovo e attrae, anche perché non si può poi tornare indietro, ma
solo che non ci si deve lasciare schiacciare dalla macina del sempre uguale
fino ad essere morti dentro, ma riuscire a vedersi e a parlarsi con onestà,
perché solo così si riesce a costruire rapporti che siano autentici e
appaganti. È perdere quello che è pericoloso e ci rende infelici.
L’ambizioso progetto, la cui locandina non può
non richiamare alla mente “American Gothic” di Grant Wood, riesce a essere
estremamente divertente, seppure malinconico; e sebbene
a tratti surreale, non si perde in se stesso mostrando un intenso attaccamento
alla realtà. La recitazione è di prim’ordine.
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