Ammetto
che la sola vera ragione per guardare The Mandalorian per me è
l’adorabile coccolosissimo personaggio che ha finito per essere conosciuto come
Baby Yoda, in realtà ufficialmente “the child”, il bambino – o la bambina, di
per sé. Sono stata attenta al pronome, e la serie per alcune puntate si è mantenuta
sul neutro “it”, cosa che mi ha fatto spesare potesse essere una femmina,
usando però in seguito “he” cosa che quindi fa ritenere che sia un maschio. Già
è prevista una pletora di giocattoli e gadget con il tenero personaggio e già
li voglio, segno che hanno saputo fare il loro gioco molto bene, tanto più considerato
anche che sono una spettatrice che ha quasi l’età di Baby Yoda, ovvero 50 anni;
immaginarsi il successo con i più giovani.
Afferente
al franchise di Star Wars, e in effetti conosciuta anche come Star
Wars: The Mandalorian, questa creazione di Jon Favreau per la neonata
Disney+ (in Italia a partire dal 24 marzo 2020) è ambientata cinque anni dopo
le vicende de Il Ritorno dello Jedi e 25 anni prima de Il Risveglio
della Forza, leggo online per quelli per cui questi riferimenti hanno un
senso. Non per me, ammetto, che ho visto Guerre Stellari quando è uscito,
e questo è quanto. Sicuramente a conoscere la mitologia della saga, ci si
gode tutto di più, ma posso confermare, da ignorante, che si riesce a seguire
tutto benissimo anche ignorandola.
Protagonista
è un cacciatore di taglie mandaloriano,
chiamato Mando (Pedro Pascal), ovvero un appartenente a un popolo guerriero in
cui da piccolo è stato adottato dopo aver perso i propri genitori. Secondo il
loro credo, devono indossare sempre, e togliere davanti a nessuno, un elmo che
nasconde il loro volto (durate la prima stagione noi stessi lo vediamo una sola
volta), perché “this is the way” (“questa è la via” letteralmente, o “questo è
il modo”, non ho idea al momento del mio scrivere di come verrà tradotto), come
recita il loro motto. Con le ricompense che guadagna cerca di forgiare una nuova
armatura.
Uno
dei primi incarichi che Mando riceve dal Cliente (Werner Herzog) è proprio
quella di portargli quello che si scopre essere il Bambino, questa creatura
verde con grandi occhi e orecchie che emette suoni strani e che tanti scambiano
per un animaletto domestico, con tanto di futuristica culletta volante,
apparentemente inerme, ma già in grado di usare la Forza che gli
permette di avere notevoli poteri. Nel timore che il piccolo possa fare una brutta
fine, contro le regole, il Mandaloriano lo prende e protegge portandolo con sé.
Ne diventa così una sorta di padre affidatario. L’obiettivo è quello di
riportarlo alla sua gente.
Ricchissimo
di una mitologia che fa evidentemente riferimento a un canone già molto ampio
e definito, questo space western non può contare su chissà che dialoghi
o approfondimenti psicologici, ma su tanta azione e avventura. C’è il fondo
metaforico di bene e male su cui regge l’impalcatura, c’è un rinnovo della tradizione
dello stoico eroe solitario, qui umanizzato e addolcito da una volontaria paternità
(presumibilmente un tema già caro in altri "capitoli" delle vicende), il codice d’onore di una cultura
di appartenenza, i parallelismi fra la vita del protagonista e del suo protetto,
lealtà e sacrificio, guerra…le storie sono di una semplicità disarmante, e diverse
puntate, fatte di sparatorie, agguati e scontri, non elicitano chissà quali
riflessioni. Forse sono troppo poco imbevuta delle finezze della storia madre
per vederle io qui. Né la narrazione, né l’aspetto visuale mi incoraggiano a
rivisitare la serie oltre la prima stagione, che è comunque spensieratamente
gradevole se accedo alla pre-adolescente che è in me. Sul successo di pubblico
non ho dubbi, in ogni caso.
Affascinanti
i titoli di coda, che riprendono le vicende della puntata e le ripropongono in
modalità fumetto.
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