SPOILER NEL PRIMO PARAGRAFO. In Star Trek: Picard (Amazon Prime), l’ammiraglio Jean-Luc Picard
(Patrick Stewart) è ormai in pensione e trascorre il suo tempo fra i vigneti
della sua tenuta in campagna, consapevole che non gli rimane molto da vivere a
causa di un problema cerebrale. Una giovane donna, Dahj (Isa Briones) si
rivolge a lui per aiuto e scoprono che si tratta di un androide biologico
creato dal dottor Bruce Maddox sulla base del cervello positronico del
comandate Data, cosa che la fa considerare sua “figlia”. Quando viene uccisa, l’anziano
ufficiale mette insieme una squadra per
cercare di salvare almeno la sorella gemella di Dahj, Soji, che rischia la
stessa sorte: Cristobal “Chris” Rios (Santiago Cabrera) è un esperto pilota che
viene assoldato insieme alla sua nave, La Sirena; la dottoressa Agnes Jurati
(Alison Pil, Devs), che ha lavorato
con Maddox, è la maggiore esperta di intelligenza artificiale; Rafaella “Raffi”
Musiker (Michelle Hurd) è una ex-ufficiale della flotta stellare che in passato
aveva lavorato con JL; Elnor (Evan Evagora) è un esperto di combattimento salvato
da bambino dall’ammiraglio. Il loro obiettivo è salvare Soji, che inizialmente
vive su un cubo Borg conosciuto come l’Artefatto, dove si cerca di recuperare
all’umanità gli ex-Borg, che è presa di mira dai Romulani (nello specifico
dalla Zhat Vash, una sorta di antica fazione della Tal Shiar, la loro polizia
segreta), che vogliono distruggere ogni forma di intelligenza artificiale
perché ritengono che saranno altrimenti la causa della fine del mondo biologico:
vedono in Soji la Distruttrice. Per cercare di carpirle informazioni e spiarla
diventa suo amante il romulano Narek (Harry Treadaway, Penny Dreadful).
In 10 puntate sviluppate
con una narrazione orizzontale ad arco, senza puntate verticali autoconclusive,
le vicende della più recente aggiunta al franchise ideato da Gene Roddenberry si basano sui personaggi di ST: The Next
Generation, ma sono ugualmente seguibili da chi non avesse familiarità con il
canone. Lo dico con cognizione di causa, perché sebbene l’originario Star Trek fosse quasi una religione per
me e abbia seguito Enterprise e Discovery, sono digiuna di Deep Space Nine e Voyager e ho solo scarsa familiarità con STTNG. La comparsa come guest
star (Riker, Data, Seven of Nine, Deanna Troi) è una chicca per gli aficionados, ma non crea ostacoli agli
altri.
Le chiavi di lettura
della prima stagione, che si è chiusa lo scorso 26 marzo, sono state
principalmente due, per me. La prima è una citazione in bocca s Soji in “The
End is the Beginning” (1.03) che incontra una ex-B (una ex-borg cioè). È affascinata
dal fatto che i romulani possano creare una mitologia, una “struttura narrativa
comune per capire il loro trauma, radicata in archetipi profondi, ma rilevante
quanto le notizie del giorno”. “È proprio quello che
spero di fare io”, dice, e se non sono queste parole con un significato
metatestuale che rivelano la poetica degli autori, non so quali possano
esserlo.
La seconda chiave di lettura si intreccia con la prima. Showrunner di
questa serie, ideata insieme a Alex Kurtzman, Kirsten Beyer e Akiva Goldsman, c’è
nientemeno che Michael
Chabon, vincitore del Pulitzer per Le
fantastiche avventura di Kavalier & Clay. Ha scritto sul New Yorker (11 novembre 2019) una saggio
di storia personale, The
Final Frontier, in cui racconta del suo rapporto col padre morente, poi
scomparso, con il quale condivideva la passione per la serie. Questo ha
informato, come lui stesso ammette, la sua scrittura di questi episodi dove la
mortalità e la perdita si rincorrono come temi musicali. Insieme a quello della memoria, mi pare. Nella season finale questo è particolarmente
evidente.
Non condivido la
posizione del Guardian
che giudica questa incarnazione come pessimista. Non è più una Federazione che
non commette errori, ma se l’istituzione è imperfetta, i rapporti di lealtà e
amicizia fra le persone e di valore umano rimangono una forza trasformante
positiva e ottimista. Quello che è vero è che, così come in Discovery, non c’è più uno Star Trek che è un viaggio conoscenza,
alla ricerca di nuovi mondi e nuove civiltà, ma uno che fa esperienza delle
stessa ansia cui ci hanno abituato molte altre serie – da Black Mirror ad Äkta Människor, o Humans, da Battlestar
Galactica a The Orville (la più
fedele allo spirito originario di Roddenberry) – ovvero quella per il timore
che la tecnologia ci sfugga di mano con la creazione di robot umanoidi così
evoluti e perfetti da sopraffarci. Ma proprio in “Et in Arcadia Ego – Part II”
(1.10) si vede l’ottimismo della consapevolezza che è sempre questione di
scelte e la paura non deve essere ciò che ci guida.
Sono rimasta appagata da
Picard, anche per come è riuscito ad
esporre in modo sufficientemente lineare una mitologia molto ricca e complessa.
Non ne sono forse uscita esaltata, ma ho apprezzato pur nell'incalzare avventuroso degli eventi il tono pacato,
intellettuale e gentile che si collega al personaggio interpretato dall’ormai 79enne
Stewart, e che qui di fondo pervade l’intero racconto.
Per la prevista seconda stagione
posso solo dire: engage (attivare).
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