The Man in the High Castle, L’Uomo nell’Alto Castello, la produzione
Amazon Prime basata sull’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (La Svastica sul Sole in italiano), è una
ucronia in cui le forze dell’asse hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale: gli
Stati del Pacifico sono sotto il controllo giapponese, mentre la gran parte del
resto degli Stati Uniti, salvo una piccola zona neutrale, sono sotto il
controllo dei tedeschi. Roosevelt è stato assassinato e i nazisti hanno
sganciato una bomba atomica su Washington.
Nelle
quattro stagioni di 10 puntate ciascuna di cui si compone, il punto di forza di
questa creazione di Frank Spotnitz è una trama molto solida e ben recitata: in
generale la narrazione è molto appagante perché ben strutturata e ricca di
colpi di scena imprevedibili che la rendono sia facile da seguire e in un
certo senso entusiasmante, oltre che molto pregnante rispetto al commento
che offre metaforicamente sulla realtà contemporanea. Visivamente è più
ordinaria.
Prima
sotto il potere del Führer Hitler (Wolf Muser, Santa Barbara) poi, dopo la morte di questi, di Himmler (Kenneth
Tigar), seguiamo le vicende dell’Obergruppenführer
delle SS, John Smith (Rufus Sewell, Victoria),
che fa poi carriera, che vive inizialmente in periferia poi a Manhattan insieme
alla sua famiglia, che ama molto: la moglie Helen (Chelah Horsdal) e tre figli,
Thomas (Quinn Lord), membro della gioventù hitleriana, Amy (Gracyn Shinyei) e
Jennifer (Genea Charpentier). Sua principale “avversaria” nel corso del tempo è
la partigiana Juliana Crain (Alexa Davalos) che all’inizio delle vicende è
legata a Frank Frink (Rupert Evans), il cui nonno ebreo lo mette a rischio di
discriminazione, ma che viene presto intrigata da Joe Blake (Luke Kleintank),
perennemente in bilico su da che parte stare. Fra i migliori amici di Juliana
e Frank c’è Ed McCarthy (DJ Qualls), che avvia una collaborazione con Robert
Childan (Brennan Brown), un pavido, ma astuto
antiquario che vende cimeli americani ai giapponesi. Presto la
resistenza, e nella quarta stagione la BCR (Black Communist Rebellion), si fa
più organizzata ed è oggetto di repressione tanto da parte tedesca quanto da
parte nipponica. Su quel versante, due leader sono il Ministro del Commercio
Nabosuke Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), poi una figura positiva, e l’ispettore
capo della Kenpeitai di stanza a San Francisco
Takeshi Kido (Joel de la Fuente), che si riscatta solo alla fine: “questi imperi
per cui combattiamo sono solo castelli di sabbia. Solo le onde sono eterne”
(4.08).
I film in
possesso dell’uomo nell’alto castello del titolo, su cui da un lato i nazisti,
dall’altro la resistenza cercano di mettere le mani, ritraggono versioni
alternative della storia, della realtà. Se nella diegesi questo si spiega per
la presenza di un multiverso, per cui in ogni universo parallelo ci sono varie
alternative di noi, il senso per noi è che immaginare delle alternative alla
realtà presente permette di attivarsi per cambiarla, per avere una Storia
(passato condiviso) e una storia (narrazione) differenti. Vedere film cambia le menti delle persone, e questo è la precondizione perché ci
possano essere dei cambiamenti, delle scelte diverse. Mondi paralleli, fra
virgolette, mondi diversi sono nei fatti resi possibili grazie alle nostre
scelte. Questo è il senso ultimo di quello che la serie dice: quello che accade
non è nelle mani di Dio, è nelle nostre mani. E suppongo che si potrebbe fare un’analisi nei termini dei “mondi possibili” di Eco.
La serie è particolarmente riuscita nel
mantenere il protagonista nazista principale in una situazione ambigua. Evita
di cadere nella trappola del “nazista buono”, che sarebbe un ossimoro e
moralmente discutibile, tuttavia riesce a non renderlo nemmeno un irredimibile
cattivo, nel momento in cui lo mostra come un uomo che, sconfitto e costretto
ad accettarli per sopravvivere, non ha sempre creduto buoni i principi del
Reich, salvo poi sostenerli e rendersi conto alla prova dei fatti quanto siano
deleteri. E quando la sua famiglia rischia di venire compromessa dai principi,
lui non mostra dubbio alcuno su che cosa sceglie: le persone amate.
Contemporaneamente, facendo carriera, e volendo mantenerla, e temendo anche per
la propria incolumità, non arriva a disconoscerli e a rinunciare al suo ruolo. In
questo senso, la recitazione di Rufus Sewell è particolarmente sensibile, perché
infonde costantemente il personaggio della crescente consapevolezza di essere
in trappola in una realtà che ha aiutato a creare e che mantiene, ma di cui
vede l’obbrobrio. Questo si estende anche ad Helen, la più coraggiosa alla
fine nell’interrogarsi sul che cosa siano diventati e sul cercare di arrestare
questo processo che riconosce come criminale.
Uno degli
aspetti salienti è che si guarda non al nazismo dei grandi eventi (veri o
immaginati che siano), ma a quello domestico, quello della vita quotidiana delle
persone comuni, di coloro che poi non lo vivevano così male perché in una
situazione di privilegio rispetto a quelli braccati come topi. Questo si
riflette nella messa in scena. Sebbene si evochino i grandiosi scenari del
potere, la gran parte delle scene avviene in uffici, case, camere d’albergo, seminterrati,
baracche… Per certi aspetti fa più effetto
vedere la madre di famiglia leggere l’etichetta di un indumento e vedere che
c’è una sigla che sta ad indicare che è realizzato da mani ariane, che
l’ennesima esecuzione. Sa essere
raggelante, ma in questa domesticità ci si rende anche conto del perché ha
potuto attecchire. E perché ignoriamo realtà altrettanto terribili intorno a
noi.
In
maniera molto forte poi, si esamina la conseguenza della riflessione critica
dei figli sui genitori. I figli vivono le conseguenze delle scelte materne e
paterne, e non sono belle. Sono il seme della distruzione di quel regime, che
evidentemente non può essere sostenuto. Nella seconda stagione, lo si esplicita
nella scelta del figlio di John, che è idealmente imbevuto degli ideali nazisti, in uno dei twist della stagione più inattesi e coinvolgenti, forse dovrei dire
sconvolgenti perché coerenti. In seguito la figlia maggiore di John in particolare
comincia ad accorgersi delle menzogne, e della propaganda. Venuta in contatto
con un’alternativa, vede la realtà e per quella che è. E su questo si può
riflettere come sia facile mantenere dei regimi totalitaristici e dispotici lì
dove non c’è permeabilità con delle alternative. Helen si rende conto che ha
perso anche la figlia più piccola alla fine, perché la sua mente appartiene invece
allo Stato, che le ha fatto il lavaggio del cervello. Il figlio di Takeshi
Kido è considerato un eroe di guerra, ma soffre di disturbo post-traumatico da
stress, e reagisce con violenza verso queste emozioni distruttive che non
riesce a controllare.
La parte
distopico-fantascitifica pure è coerente col disegno di dominio del mondo del
Reich e la forza del programma sta proprio nel riuscire ha mostrare la
pericolosità di certe idee nella confezione di un’avventura molto godibile.