domenica 13 dicembre 2020

WE ARE WHO WE ARE: di Guadagnino - Giordano - Manieri

 


Non riesco a decidere se mi è piaciuto molto o se sia un esperimento gonfiato e sopravvalutato We are who we are, la serie diretta da Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome) per HBO e Sky Atlantic, co-scritta insieme a Francesca Manieri e Paolo Giordano, il vincitore del premio Strega per La Solitudine dei Numeri Primi, autore del soggetto. La narrazione sembra non sapere dove vuole andare, ma lo sa, e questo è l’aspetto più affascinante della scrittura, è più un “ti mostro la vita” di un “ti racconto una storia”. Siamo nel 2016, subito prima dell’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti, in una base americana a Chioggia. Protagonisti principali sono due adolescenti. L’originale è in inglese e in dialetto veneto, prevalentemente, con qualche comparsa di italiano. 

Fraser Wilson (Jack Dylan Grazer) è un ragazzo quattordicenne che si trasferisce con le sue due madri in Italia, dopo che una delle due, Sarah (una sempre convincente Chloë Sevigny, Big Love) è stata promossa ed è diventata il nuovo colonnello a capo della base militare, dove lavora come infermiera militare anche l’altra madre, moglie di Sara, Maggie (Alice Braga). È un ragazzo difficile e con seri problemi comportamentali. Non solo ha difficoltà con l’autorità, come è evidente fin dal pilot dal suo atteggiamento nel momento in cui gli chiedono di scattare la foto per il tesserino identificativo, nel non ascoltare gli inni nazionali, nell’essere scomposto e disattento a scuola… odia quello che la madre rappresenta, ma si va al di là della più banale ribellione adolescenziale: Fraser schiaffeggia (1.01), aggredisce tirandole i capelli (1.04) e insulta la madre con epiteti pesanti e le fa il trattamento del silenzio (1.05). Non che in casa sembrino preoccuparsene più di tanto, a dire il vero. Il solo rimedio è abbracciarlo ed eventualmente commentare che quell’ambiente non lo aiuta. È un grande amante della moda e della lettura, sempre immerso con il naso in qualche libro – cosa che da spettatrice mi è parsa più un modo di atteggiarsi, che non una vera passione, nel senso che mi è passata l’idea che fosse un modo per gli autori di redimerlo come un animo tormentato e profondo ed evitare che lo considerassimo un teppistello sbandato che ha bisogno urgente di un aiuto psicologico perché è una persona in serie difficoltà. Si prende una grande cotta per Jonathan (Tom Mercier), un giovane ufficiale assistente della madre.

Fraser appena arrivato conosce una serie di persone, fra cui Britney (Francesca Scorsese), ma quella con cui lega davvero è la migliore amica di lei, Caitlin Poythress (Jordan Kristine Seamón), figlia di un ufficiale trumpiamo, Richard (Scott Mescudi), e di Jenny (Faith Alabi), con cui vive, insieme anche al fratello Danny (Spence Morre II), che è attratto da e studia la cultura musulmana. La giovane donna, che si sviluppa proprio nel corso della miniserie, pensa di seguire le orme professionali del padre, a cui è molto legata: con lui va in barca la mattina presto, va a caccia, impara a fare a pugni e a sparare. Anche se a casa non se ne accorgono è in crisi identitaria rispetto al proprio genere sessuale di appartenenza, usa i propri capelli per farsi dei finti baffi e cerca di farsi passare per un ragazzo, e scopre in definitiva l’identità di ciscuno è in costante cambiamento. Frequenta la scuola e un nutrito gruppo di amici, ma il padre non vede di buon occhio il fatto che si accompagni a Fraser.      

Si tratta essenzialmente di una storia di coming-of-age, quindi gli adolescenti sono in primo piano. Questi ragazzi saranno anche meno problematici e ansiogeni per gli adulti di quanto non siano  quelli di Euphoria – come ha giustamente notato anche Ben Travers su IndieWire - , ma se non altro in quel caso nessuno cerca di spacciarci i loro comportamenti come qualcosa di bello e desiderabile, la loro apparente assenza di inibizioni come uno stato di paradisiaca innocenza, ma si vede l’atteggiamento autodistruttivo e disperato per quello che è. La mia osservazione nasce anche da un commento post-episodio di Guadagnino che si sofferma su una sorta di festa di nozze che la gang tiene per due di loro che si sono sposati. Entrano furtivamente in un’abitazione di lusso (1.04), una villa di proprietà di russi assenti in quel momento, e si comportano come fosse casa loro. Il regista vede quel luogo per loro come un Eden di libertà. Io da spettatrice l’ho vissuto come un comportamento da selvaggi, pure mezzi fatti, e quello che ho visto è più simile alla mia idea di inferno che di paradiso. Alla loro età so che mi avrebbe spaventata oltre che schifata.

In quell’abitazione poi i ragazzi tornano in seguito alla morte dell’allora sposo (1.07) e vandalizzano i locali – spingono un pianoforte contro una vetrata che si frantuma in mille pezzi, sfogano l’aggressività cercando di demolire un bancone e randellando a destra e a manca. Certo, esprimono il proprio dolore, è evidente, ma nessuno che si preoccupi di condannare questi atteggiamenti. Se non giudicare la persona è importante, non approvare per questo comportamenti deleteri non solo è umano, è necessario per quelli che nelle vite di questi ragazzi hanno un ruolo educativo. Nessuno vuole la predica, ma questo laissez-faire menefreghista mi pare anche decisamente poco realistico in un ambiente militare. Tutto è avvenuto senza la minima conseguenza: nemmeno una parola. Per il resto devo dire che vivo relativamente vicina a una base militare americana e ci sono entrata qualche volta. Da quello che  ho visto da esterna mi sembra che ne abbiano fatto un ritratto accurato, dalle case, al commissary in cui Britney porta Frazer a fare un giro proprio nel pilot, alla vita in generale.

Non è solo un teen drama, in ogni caso. Anche gli adulti, e più nello specifico i genitori dei due ragazzi hanno una porzione della storia a loro dedicata. Tutti gli attori, adulti e no, hanno fatto un lavoro egregio e non ci sono propriamente tematiche, quanto echi di tematiche. Ci sono notevoli sottigliezze. Di certo la visione non è stata una perdita di tempo, ma non posso dire che mi sia passato il messaggio ultimo che, a detta del regista nell’intervista post-ultimo episodio, sarebbe la loro eredità spirituale di questo lavoro narrativo, ovvero il desiderio di amare e di esser amati. Non mi ha nemmeno sfiorato, e al massimo lo intravedo dopo che è stato esplicitato. Vedo invece “l’irregolarità” apprezzata expicitis verbis dal protagonista (1.08) in campo d’abbigliamento come l’essenza nella forma e contenuto di quello che ho visto.

 “Siamo chi siamo” è il titolo del programma. Sono chi sono.

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