Non riesco a decidere se
mi è piaciuto molto o se sia un esperimento gonfiato e sopravvalutato We are who we are, la serie diretta da
Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome)
per HBO e Sky Atlantic, co-scritta insieme a Francesca Manieri e Paolo
Giordano, il vincitore del premio Strega per La Solitudine dei Numeri Primi, autore del soggetto. La narrazione
sembra non sapere dove vuole andare, ma lo sa, e questo è l’aspetto più
affascinante della scrittura, è più un “ti mostro la vita” di un “ti racconto
una storia”. Siamo nel 2016, subito prima dell’elezione di Trump a presidente
degli Stati Uniti, in una base americana a Chioggia. Protagonisti principali
sono due adolescenti. L’originale è in inglese e in dialetto veneto,
prevalentemente, con qualche comparsa di italiano.
Fraser Wilson (Jack
Dylan Grazer) è un ragazzo quattordicenne che si trasferisce con le sue due
madri in Italia, dopo che una delle due, Sarah (una sempre convincente Chloë
Sevigny, Big Love) è stata promossa
ed è diventata il nuovo colonnello a capo della base militare, dove lavora come
infermiera militare anche l’altra madre, moglie di Sara, Maggie (Alice Braga). È un
ragazzo difficile e con seri problemi comportamentali. Non solo ha difficoltà
con l’autorità, come è evidente fin dal pilot dal suo atteggiamento nel momento
in cui gli chiedono di scattare la foto per il tesserino identificativo, nel
non ascoltare gli inni nazionali, nell’essere scomposto e disattento a scuola… odia
quello che la madre rappresenta, ma si va al di là della più banale ribellione
adolescenziale: Fraser schiaffeggia (1.01), aggredisce tirandole i capelli
(1.04) e insulta la madre con epiteti pesanti e le fa il trattamento del
silenzio (1.05). Non che in casa sembrino preoccuparsene più di tanto, a dire
il vero. Il solo rimedio è abbracciarlo ed eventualmente commentare che
quell’ambiente non lo aiuta. È un grande amante della moda e della
lettura, sempre immerso con il naso in qualche libro – cosa che da spettatrice
mi è parsa più un modo di atteggiarsi, che non una vera passione, nel senso che
mi è passata l’idea che fosse un modo per gli autori di redimerlo come un animo
tormentato e profondo ed evitare che lo considerassimo un teppistello sbandato che
ha bisogno urgente di un aiuto psicologico perché è una persona in serie
difficoltà. Si prende una grande cotta per Jonathan (Tom Mercier), un giovane
ufficiale assistente della madre.
Fraser appena arrivato
conosce una serie di persone, fra cui Britney (Francesca Scorsese), ma quella
con cui lega davvero è la migliore amica di lei, Caitlin Poythress (Jordan
Kristine Seamón), figlia di un ufficiale trumpiamo, Richard (Scott
Mescudi), e di Jenny (Faith Alabi), con cui vive, insieme anche al fratello Danny
(Spence Morre II), che è attratto da e studia la cultura musulmana. La giovane
donna, che si sviluppa proprio nel corso della miniserie, pensa di seguire le
orme professionali del padre, a cui è molto legata: con lui va in barca la
mattina presto, va a caccia, impara a fare a pugni e a sparare. Anche se a casa
non se ne accorgono è in crisi identitaria rispetto al proprio genere sessuale
di appartenenza, usa i propri capelli per farsi dei finti baffi e cerca di
farsi passare per un ragazzo, e scopre in definitiva l’identità di ciscuno è in
costante cambiamento. Frequenta la scuola e un nutrito gruppo di amici, ma il
padre non vede di buon occhio il fatto che si accompagni a Fraser.
Si tratta essenzialmente
di una storia di coming-of-age, quindi
gli adolescenti sono in primo piano. Questi ragazzi saranno anche meno
problematici e ansiogeni per gli adulti di quanto non siano quelli di Euphoria
– come ha giustamente notato anche Ben Travers su
IndieWire - , ma se non altro in quel caso nessuno cerca di spacciarci i loro
comportamenti come qualcosa di bello e desiderabile, la loro apparente assenza
di inibizioni come uno stato di paradisiaca innocenza, ma si vede
l’atteggiamento autodistruttivo e disperato per quello che è. La mia
osservazione nasce anche da un commento post-episodio di Guadagnino che si
sofferma su una sorta di festa di nozze che la gang tiene per due di loro che
si sono sposati. Entrano furtivamente in un’abitazione di lusso (1.04), una
villa di proprietà di russi assenti in quel momento, e si comportano come fosse
casa loro. Il regista vede quel luogo per loro come un Eden di libertà. Io da
spettatrice l’ho vissuto come un comportamento da selvaggi, pure mezzi fatti, e
quello che ho visto è più simile alla mia idea di inferno che di paradiso. Alla
loro età so che mi avrebbe spaventata oltre che schifata.
In quell’abitazione poi
i ragazzi tornano in seguito alla morte dell’allora sposo (1.07) e vandalizzano
i locali – spingono un pianoforte contro una vetrata che si frantuma in mille pezzi,
sfogano l’aggressività cercando di demolire un bancone e randellando a destra e
a manca. Certo, esprimono il proprio dolore, è evidente, ma nessuno che si
preoccupi di condannare questi atteggiamenti. Se non giudicare la persona è
importante, non approvare per questo comportamenti deleteri non solo è umano, è
necessario per quelli che nelle vite di questi ragazzi hanno un ruolo
educativo. Nessuno vuole la predica, ma questo laissez-faire menefreghista mi
pare anche decisamente poco realistico in un ambiente militare. Tutto è
avvenuto senza la minima conseguenza: nemmeno una parola. Per il resto devo
dire che vivo relativamente vicina a una base militare americana e ci sono
entrata qualche volta. Da quello che ho
visto da esterna mi sembra che ne abbiano fatto un ritratto accurato, dalle
case, al commissary in cui Britney
porta Frazer a fare un giro proprio nel pilot, alla vita in generale.
Non è solo un teen drama, in ogni caso. Anche gli
adulti, e più nello specifico i genitori dei due ragazzi hanno una porzione
della storia a loro dedicata. Tutti gli attori, adulti e no, hanno fatto un
lavoro egregio e non ci sono propriamente tematiche, quanto echi di tematiche. Ci
sono notevoli sottigliezze. Di certo la visione non è stata una perdita di
tempo, ma non posso dire che mi sia passato il messaggio ultimo che, a detta
del regista nell’intervista post-ultimo episodio, sarebbe la loro eredità
spirituale di questo lavoro narrativo, ovvero il desiderio di amare e di esser
amati. Non mi ha nemmeno sfiorato, e al massimo lo intravedo dopo che è stato
esplicitato. Vedo invece “l’irregolarità” apprezzata expicitis verbis dal protagonista (1.08) in campo d’abbigliamento
come l’essenza nella forma e contenuto di quello che ho visto.
“Siamo chi siamo” è il titolo del programma. Sono chi sono.
Nessun commento:
Posta un commento