giovedì 29 luglio 2021

LITTLE FIRES EVERYWHERE: razzismo e arte

Little Fires Everywhere (Amazon Prime) incorpora la propria poetica nella diegesi con una riflessione dall’evidente valore metatestuale all’inizio della sesta puntata. In una lezione universitaria di arte, e in particolare di fotografia, ci si interroga: “Che cos’è la bellezza? Come la si riconosce? La troviamo nello straordinario? Nella quotidianità? O in das Umheimlich? Il perturbante”. Si continua spiegando che Freud definiva quest’ultimo come quella sorta di spaventoso che risale a ciò che ci è noto da tempo, a ciò che ci è familiare, e che in quel semestre l’intenzione è di guardare a ciò che è usuale e casalingo e a come diventi perturbante, repellente o anche terrificante, fuori ma anche dentro se stessi. La serie fa questo, guarda a quelle parti di noi che abbiamo paura di guardare, ed in particolare, ma non solo, lo fa guardando e mettendo sotto i riflettori il tema del razzismo, quello strisciante e mascherato, sistemico e pervasivo.

Si esordisce con l’incendio che dà il titolo alla miniserie: tanti piccoli fuochi sono stati all’origine di quel disastro. Si va indietro per capire come si è arrivati a quel punto. Siamo a Shaker Heights, un quartiere realmente esistente a Cleveland, in Ohio. Mia Warren (Kerry Washingon, Scandal) è una fotografa che gira il Paese in compagnia della figlia Pearl (Lexie Underwood), non fermandosi mai troppo a lungo in un luogo, e lavorando come cameriera part-time per sbarcare il lunario. Va a vivere in affitto nella dependance di una ricca famiglia, formata da Elena Richardson (Reese Witherspoon, Little Fires Everywhere), reporter part-time, sposata con Bill (Joshua Jackson, The Affair), un avvocato dal quale ha avuto quattro figli: Lexie (Jade Pettyjohn), studentessa modello; Izzy (Megan Stott), pecora nera della famiglia; Trip (Jordan Elsass, Superman & Lois), molto popolare; e Moody (Gavin Lewis), più timido e riservato. Fra Mia ed Elena non corre buon sangue, ma la figlia di Mia trova appoggio e conforto in Elena, e viceversa le figlie di Elena in Mia. Quando Mia decide di aiutare Bebe (Huang Lu), una collega immigrata irregolare, a riprendersi la figlia Mei-Ling data in adozione ad un’amica di Elena, Linda (Rosemarie DeWitt), e nell’interazione fra le due famiglie, emergono segreti tenuti a lungo custoditi.

Liz Tigelaar, che trasporta su schermo l’omonimo libro di Celeste Ng, che ho letto e che ritengo reso con acume, è molto misurata, a carburazione lenta, ma ricca di eventi. Meno viscerale di quanto non sia l’arte fotografica usata nelle diegesi di cui è autrice una delle due protagoniste principali, nondimeno riesce ad essere chirurgica nello sviscerare gli stati d’animo e le motivazioni delle due donne che si contendono la scena. E le due attrici, in forma smagliante, riescono a rendere credibili le rispettive vulnerabilità e il rapporto di schiumoso astio a stento trattenuto fra le due.  

Allo stesso tempo, se proprio una critica negativa devo muovere, non va molto per il sottile, vuole proprio essere sicura che attribuiamo a razzismo interiorizzato e inconsapevole atteggiamenti che, a mio vedere, in qualche caso erano altro. O attribuisce a ipocrisia comportamenti che forse sono biasimevoli nella loro cecità, ma sono comunque messi in atto in buona fede. Forse sono io che, ingenuamente, non lo vedo per il razzismo che effettivamente è, anche se è razzismo ben coperto da una patina di gentilezza. In ogni caso, anche lì dove io vi davo un’altra spiegazione, se non altro ha mostrato come sia facile anche interpretarli come tali lì dove colora davvero tutto. E ha saputo ben mostrare come il privilegio facilmente dà delle opportunità che ad altri semplicemente non sono a disposizione e come essere bianchi rientra fra questi provilegi. Una donna povera di origine cinese finisce per perdere la propria bambina che viene data in adozione – non può permettersi di darle da mangiare. La proprietaria di un negozio non le presta nemmeno una cifra irrisoria per sfamarla. Quello stesso ammontare è abbuonato senza problemi a Izzy una ragazzina bianca che non ha i soldi per pagare il biglietto dell’autobus. Lei avrà anche problemi suoi in quanto lesbica e gender nonconforming, ma nella scala sociale rimane comunque in una situazione di vantaggio.

Cambiare come guardiamo le cose cambia le cose, propone una narrazione diversa, trasformativa: questo in una cornice che esplora temi come l’identità, i segreti, la maternità, i rapporti madre-figlia, l’arte. 

lunedì 19 luglio 2021

SCHMIGADOON!: un ironico "Brigadoon" moderno

Quando avevo letto che era in previsione una comedy intitolata Schmigadoon! (AppleTV+), ho pensato che non avrei potuto assolutamente perdermi una serie con un titolo così divertente e perfetto. Si capisce all’istante che è una parodia - in inglese il prefisso “schm” è un prestito yiddish che segnala in qualche modo una presa in giro - di Brigadoon un romantico musical del 1947 di Vincente Minellli, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale, che amavo da ragazzina (anche se ora ammetto di non ricordarlo molto). E poi, con quel cast! Anche solo la presenza di Alan Cumming (The Good Wife), che qui interpreta il sindaco Menlove (nomen omen) mi sarebbe stato sufficiente, ma qui c’è imbarazzo di abbondanza di nomi noti e amati, alcuni con un invidiabile pedigree di teatro musicale: Fred Armisen (il Reverendo Layton); Kristin Chenowith (la signora Layton); Jaime Camil (Doc Lopez); Jane Krakowski (la contessa); Martin Short (il leprecauno)…  

Lì dove ci sono grandi aspettative, c’è sempre il rischio che vengano deluse. Posso dire che dalle prime due puntate che ho visto, di sei previste, non delude.

Josh (Keegan Michael-Key) e Melissa (Cecily Strong), due medici newyorkesi, sono una coppia in crisi che decide di prendersi una vacanza col proposito di rinvigorire il loro rapporto. Durante una camminata si perdono. Arrivano a un ponte che attraversano e sono subito nella cittadina stile anni-40-50 di Schmigadoon, dai colori brillanti ed ipersaturi (pensate a Pushing Daisies), vegetazione visibilmente finta e scenografie in 2D. Gli abitanti a ogni piè sospinto si lanciano a cantare e ballare, come frequente modo di comunicare, anche quando Josh e Mel supplicano loro di non farlo, di fermarsi, visto che non sono amanti del genere musical - lui in particolare, che ad un certo punto dichiara che è come se The Walking Dead fosse anche Glee (1.02). Non solo. Presto si rendono anche conto che sono bloccati lì. Potranno andarsene solo quando troveranno il “vero amore”. E, qualunque cosa questo sia, chiaramente in questo momento non lo sono l’uno per l’altra. Danny (Aaron Tveit, BrainDead), addetto al locale lunapark, comincia subito a fare il cascamorto con Melissa, così come la giovanissima Betsy (Dove Cameron) fa le fusa a Josh.

La creazione di Cinco Paul e Ken Daurio si muove su più piani, perché si tratta di un musical a tutti gli effetti, celebrativo e amante del genere, ma contemporaneamente si deridono certi cliché. I protagonisti principali sono esasperati dal continuo irrompere della musica durante le loro conversazioni, così come potrebbe accadere a noi se succedesse una cosa del genere da un momento all’altro sul serio nella vita. Sono nel musical, ma c’è allo stesso tempo consapevolezza che nella vita reale questo non si verificherebbe, un po’ come accade in Zoey’s Extraordinary Playlist o nella puntata “One more with feeling” di Buffy the Vampire Slayer.

Gran parte dell’ironia viene però dalla scollatura fra i mores dell’epoca in cui il film da cui si trae ispirazione è stato filmato, e in cui è “immersa” questa realtà, e quelli attuali. I rapporti fra i sessi in particolare e la vita in generale sono molto cambiati nel tempo, più di quanto a volte non ci si renda conto, e il costante rimarcarlo viene fatto con intelligenza e ironia, facendoci notare proprio quanto distanti da noi sono i valori messi scena all’epoca. Contemporaneamente però qui è un luogo in cui si va in cerca dell’amore e si suppone che un nucleo fondamentale sia valido ora come allora, nelle intenzioni degli autori, vista la premessa. L’uso marcato, ma in qualche caso estremamente sottile, del doppio senso fa sì che certi scambi che diventano maliziosi con pochissimo.

Si ride forse meno di quanto non accadesse in un Galavant, ma c’è la stessa autoconsapevolezza socio-antropologica di un Crazy Ex-Girlfriend, forse in qualche modo al contrario, nel senso che quest’ultima usava i testi delle canzoni per esprimere concetti progressisti; qui i testi delle canzoni, così come le situazioni, sono fortemente ancorati alla tradizione – in modo voluto, tale da evidenziare anche posizioni potenzialmente problematiche per la sensibilità contemporanea - e sono i personaggi che sono le leve che scardinano costantemente, e proprio verbalmente nella diegesi, questa inappropriatezza per il mondo corrente, così come noi la noteremmo e commenteremmo nel vederla in una rappresentazione del passato: che sia rimarcare che fare un’asta sul cestino da pic-nic di una ragazza equivale a metterla a disposizione del maggior offerente al mercato, o chiedere al sindaco “Sei Gay?” e sentirsi rispondere “cerco di esserlo” (gay/gaio)… Schemi relazionali che un tempo si davano per scontati ora ci fanno accapponare la pelle, e Schmigadoon! ci ricorda quanto rendendolo divertente.  Si nota da subito il color-blind casting della produzione, un elemento che ne tradisce la contemporaneità, e si accoglie come davvero brillante il fatto che siano Josh e Melissa stessi a rilevarlo, con un commento che diventa osservazione metatestuale ingranata nel testo.

Attendo con impazienza il rilascio delle prossime puntate. Fra i produttori esecutivi spicca Lorne Michaels (Saturday Night Live) e la regia di tutte le puntate è di Barry Sonnenfeld

martedì 13 luglio 2021

LA BARRIERA: una distopia al gusto di telenovela

Siamo a Madrid, anno 2045, in un ipotetico futuro prossimo distopico dopo la fine di una terza guerra mondiale, quando la città è divisa in due settori a causa di un virus, il Noravirus, che ha decimato la popolazione – nel settore uno vivono i privilegiati, nel settore 2 tutti gli altri. A dividerli c’è La Barriera (Netflix) che dà il nome alla serie, “La Valla” in originale spagnolo, e si può passare da una parte all’altra solo in possesso di specifici documenti di permesso e se non si mostrano sintomi influenzali. Ci sono quarantene, coprifuoco, visite mediche obbligatorie, scarsità di risorse, iperburocrazia, propaganda da schermi televisivi giganti in città che ripetono come tutto venga fatto per la sicurezza dei cittadini, violenze, ispezioni e intimidazione, e uno stato di polizia con controlli di guardie armate ogni piè sospinto e delatori vicini al regime. Niente mascherine però, salvo un accenno nelle ultime puntate. Poco telegenico.   

Hugo Mujica (Unax Ugalde), rimasto vedovo, arriva in città dalle Asturie, accompagnato dal fratello Álex (Manu Fullola) e con a seguito la figlioletta Marta (Laura Quirós) di 10 anni, per andare a vivere dalla suocera Emilia (Ángela Molina), che gestisce un negozio di prodotti vari ed è costantemente sorvegliata da Begoña (Ángela Vega), una vicina ficcanaso che fa da spia alle autorità. Gli sottraggono la bambina, messa in un ospedale segreto dove fanno esperimenti sui piccoli il cui sangue ha il potere di portare alla realizzazione di un vaccino. Inizialmente, per riaverla, gli dicono che deve trovarsi un lavoro, e fingendosi sposato con la cognata Julia (Olivia Molina, figlia anche nella vita di quella che le fa da madre nella finzione), che è la sorella gemella di sua moglie e si fa passare per lei, viene assunto, sotto la guida della governante Rosa (Elena Seijo), a casa del ministro della salute Luis (Abel Folk). Ex innamorato di Emilia, è ora sposato con Alma (Eleonora Wexler), che tradisce il marito con il colonnello Jiménez (Manu Fullola) e che è dietro agli esperimenti sui bambini rapiti. Oltre al piccolo Sergio (Iván Chavero), che hanno preso con sé, hanno due figli aulti, lo svogliato Iván (Nicolás Illoro) che ha una storia con una cameriera di casa, Manuela (Yaima Raimos), e Daniela (Belén Écija), che cerca di aiutare la gente del settore due e fa presto amicizia con Alex, che presto si mette nei guai, finendo anche nelle mani del militare del regime Fernando (Óscar del la Fuente), così come già il fidanzato di Julia, Carlos (Juan Blanco) era capitato sotto le mani del colonnello Jimenéz.     

Ideata da Daniel Écija (Vis a vis) la serie è per molti versi quanto mai attuale per la tematica, cosa anche un po’ inquietante se si considera che è stata realizzata pre-pandemia (ha debuttato agli inizi del 2020 in madrepatria e alla fine dello stesso anno internazionalmente). Delude, nonostante abbia un buon ritmo e intreccio, perché avrebbe potuto facilmente avere un respiro più ampio e una capacità narrativa più incisiva di denuncia dei regimi dittatoriali e di riflessione politico-sociale, alla The Handmaid’s Tale o The Man in the High Castle, che a tratti richiama nella visione. Non riesce però a sganciarsi da stilemi da telenovela, dove i collaboratori del regime non sono di più di una vicina di casa impicciona che tormenta con le sue costanti comparsate, dove un ministro dello Stato corre ogni volta che l’amore di gioventù schiocca le dita, dove a creare terrore non è un sistema tentacolare che deruba le persone della propria libertà e si prende gioco dei loro diritti, ma è la troppo ambiziosa cattiva della situazione, quella Alma senza scrupoli che è disposta a rapire e sacrificare le vite di bambini innocenti, dove ti torturano magari anche, ma poi stai bene due giorni dopo, e dove comunque le situazioni sono al limite della credibilità.   

È una visione che non annoia, ma senza gran spessore. 

sabato 3 luglio 2021

ZOEY'S EXTRAORDINARY PLAYLIST: la seconda stagione

Approvo la scelta di Zoey’s Extraordinary Playlist (Lo straordinario mondo di Zoey, su RaiPlay), che vive in un mondo parzialmente fantastico, di ignorare il COVID-19 nella sua seconda stagione (di cui ora in Italia sono disponibili i primi 6 episodi). E la loro decisione di usare meno persone nei numeri musicali non l’ho notata nemmeno sapendolo, segno che hanno fatto proprio un buon lavoro.

Dopo la precedente devastante season finale, terminata con la morte del padre della protagonista, il prosieguo in questa stagione è stato inevitabilmente quello dell’elaborazione del lutto, per la protagonista in primis, ma per tutti i personaggi, con la madre Maggie (Nary Steenburgen) che non è pronta alle avance di altri uomini o prova a distrarsi con il gioco d’azzardo, con il fratello David (Andrew Leeds) che è tentato di lasciare la professione di avvocato che non lo appaga e si mette a suonare con la band nel garage dei vicini di casa… Non ha sguazzato nel dolore però, si è piuttosto concentrata su come superiamo i momenti tragici, su come andiamo avanti. Jane Levy, che interpreta Zoey, trasmette una naturale verve gioiosa, anche se è convincente anche in momenti bui ed è davvero trascinante. Per questo, nonostante si siano affrontati temi molto tosti – la storia più disperata l’ho trovata in fondo quella della depressione post-partum della cognata Emily (Alice Lee), forse liquidata un po’ troppo in fretta – c’è comunque una sensazione vitale di fondo, oltre alla tinta da commedia che dopo l’uscita dal cast di Lauren Graham (Joan, che si trasferisce a Singapore), dovuta in parte alla pandemia in parte a sui impegni precedenti, è stata anche ben sostenuta dal boss di lei, Danny Michael Davis (Noah Wiseberg), CEO della SPQR Point.

L’esuberante personalità di Mo (Ale Newell), uno dei migliori personaggi gender nonconforming che si siano mai visti, è rimasto una colonna centrale; e si è avuta l’apertura del locale MaxiMo con Max (Skylar Astin). Le secondarie vicende personali di Leif (Michael Thomas Grant) e Tobin (Kapil Talwalkar) sono state un riempitivo che non è mai pesato. La storia di razzismo sistemico che coinvolgeva Simon (John Clarence Stewart) ha mostrato sensibilità alle tematiche d’attualità anche quando sono scomode da guardare. Questo fa l’autore Austin Winsberg: lancia molti stimoli, e fa slalom con gentilezza e levità fra diversi di questi. Non sempre c’è grande approfondimento magari, ma la formula funziona e arriva al cuore. Sulla strada tracciata da Crazy Ex-Girlfriend, con la dimensione musical come elemento di spessore. Qui che le canzoni non sono originali, ad eccezione di quella volutamente cringy dell’episodio del compleanno di Zoey (2.08), apprezzo che non sempre la titolare della serie di fatto le conosca già, quando le sente.

Si è giocato di più con il “potere” dell’eroina di riuscire a sentire le autentiche emozioni degli altri – in una puntata (2.09) tutte i brani risultano rimescolati e lei non riesce subito ad individuare chi le sta inviando una richiesta d’aiuto. Finisce anche per sentirsi intrappolata per il modo in cui questa sua empatia musicale condiziona la sua vita, ma è sensato che non cerchino di spiegarlo troppo per lasciare al tutto un aspetto “magico”: questa non è una storia di supereroi. L’aspetto più appagante è stato il ruolo che ha avuto nella vita sentimentale della nostra programmatrice favorita, divisa fra Max e Simon. Da ricordare sono sicuramente la prima volta fra lei e Max (2.02), ma anche la chiusura di quest’arco (2.13). In fondo ce lo sia aspettava – visto il passato infatti, questo giro era necessario un piccolo lieto fine - anche se ce l’hanno fatta penare fino all’ultimo.

Il colpo di sena finale però, che si stava capendo in corso di via è arrivato proprio all’ultimo momento e non solo funziona come cliffhanger, ma simpaticamente chiude così come gli spettatori sanno bene esordisce ogni apertura di puntata quando appare il titolo, con il personaggio (e in questo caso i personaggi), che pronunciano una parolaccia che viene “beeppata” e così censurata e sostituita dalla firma musicale della serie. 

Salvo salvataggi in extremis da parte di qualcuno, la serie non è stata rinnovata per una terza stagione dalla NBC che la manda in onda: BEEP!