Little Fires Everywhere (Amazon Prime) incorpora
la propria poetica nella diegesi con una riflessione dall’evidente valore
metatestuale all’inizio della sesta puntata. In una lezione universitaria di
arte, e in particolare di fotografia, ci si interroga: “Che cos’è la bellezza?
Come la si riconosce? La troviamo nello straordinario? Nella quotidianità? O in
das Umheimlich? Il perturbante”. Si continua spiegando che Freud
definiva quest’ultimo come quella sorta di spaventoso che risale a ciò che ci è
noto da tempo, a ciò che ci è familiare, e che in quel semestre l’intenzione è
di guardare a ciò che è usuale e casalingo e a come diventi perturbante,
repellente o anche terrificante, fuori ma anche dentro se stessi. La serie fa
questo, guarda a quelle parti di noi che abbiamo paura di guardare, ed in
particolare, ma non solo, lo fa guardando e mettendo sotto i riflettori il tema
del razzismo, quello strisciante e mascherato, sistemico e pervasivo.
Si esordisce con
l’incendio che dà il titolo alla miniserie: tanti piccoli fuochi sono stati
all’origine di quel disastro. Si va indietro per capire come si è arrivati a
quel punto. Siamo a Shaker Heights, un quartiere realmente esistente a
Cleveland, in Ohio. Mia Warren (Kerry Washingon, Scandal) è una
fotografa che gira il Paese in compagnia della figlia Pearl (Lexie Underwood),
non fermandosi mai troppo a lungo in un luogo, e lavorando come cameriera
part-time per sbarcare il lunario. Va a vivere in affitto nella dependance di
una ricca famiglia, formata da Elena Richardson (Reese Witherspoon, Little
Fires Everywhere), reporter part-time, sposata con Bill (Joshua Jackson, The
Affair), un avvocato dal quale ha avuto quattro figli: Lexie (Jade
Pettyjohn), studentessa modello; Izzy (Megan Stott), pecora nera della
famiglia; Trip (Jordan Elsass, Superman & Lois), molto popolare; e
Moody (Gavin Lewis), più timido e riservato. Fra Mia ed Elena non corre buon
sangue, ma la figlia di Mia trova appoggio e conforto in Elena, e viceversa le
figlie di Elena in Mia. Quando Mia decide di aiutare Bebe (Huang Lu), una collega
immigrata irregolare, a riprendersi la figlia Mei-Ling data in adozione ad
un’amica di Elena, Linda (Rosemarie DeWitt), e nell’interazione fra le due
famiglie, emergono segreti tenuti a lungo custoditi.
Liz Tigelaar, che
trasporta su schermo l’omonimo libro di Celeste Ng, che ho letto e che ritengo
reso con acume, è molto misurata, a carburazione lenta, ma ricca di eventi. Meno
viscerale di quanto non sia l’arte fotografica usata nelle diegesi di cui è
autrice una delle due protagoniste principali, nondimeno riesce ad essere
chirurgica nello sviscerare gli stati d’animo e le motivazioni delle due donne
che si contendono la scena. E le due attrici, in forma smagliante, riescono a
rendere credibili le rispettive vulnerabilità e il rapporto di schiumoso astio a
stento trattenuto fra le due.
Allo stesso tempo, se
proprio una critica negativa devo muovere, non va molto per il sottile, vuole
proprio essere sicura che attribuiamo a razzismo interiorizzato e inconsapevole
atteggiamenti che, a mio vedere, in qualche caso erano altro. O attribuisce a ipocrisia comportamenti che forse sono biasimevoli nella loro cecità, ma sono
comunque messi in atto in buona fede. Forse sono io che, ingenuamente, non lo
vedo per il razzismo che effettivamente è, anche se è razzismo ben coperto da
una patina di gentilezza. In ogni caso, anche lì dove io vi davo un’altra
spiegazione, se non altro ha mostrato come sia facile anche interpretarli come
tali lì dove colora davvero tutto. E ha saputo ben mostrare come il privilegio
facilmente dà delle opportunità che ad altri semplicemente non sono a
disposizione e come essere bianchi rientra fra questi provilegi. Una donna
povera di origine cinese finisce per perdere la propria bambina che viene data
in adozione – non può permettersi di darle da mangiare. La proprietaria di un
negozio non le presta nemmeno una cifra irrisoria per sfamarla. Quello stesso
ammontare è abbuonato senza problemi a Izzy una ragazzina bianca che non ha i
soldi per pagare il biglietto dell’autobus. Lei avrà anche problemi suoi in
quanto lesbica e gender nonconforming, ma nella scala sociale rimane comunque
in una situazione di vantaggio.
Cambiare come guardiamo le cose cambia le cose, propone una narrazione diversa, trasformativa: questo in una cornice che esplora temi come l’identità, i segreti, la maternità, i rapporti madre-figlia, l’arte.