sabato 25 settembre 2021

THE LOST SYMBOL di Dan Brown: potenziale sprecato

The Lost Symbol, che ha appena debuttato sull’americana Peacock, è ispirato all’omonimo libro di Dan Brown, Il simbolo perduto in italiano. Dei popolari romanzi si dice che sono degli appassionanti thriller ricchi di curiosità, ma che, seppur ben costruiti, sono scritti in modo linguisticamente pedestre e per questo hanno scarso valore letterario. Lo stesso di fatto si può dire della realizzazione televisiva, a giudicare dal pilot. L’intreccio scorre bene, senza momenti morti, c’è un buon cast, ma la sceneggiatura è cheap e la regia piatta. Non c’è un’inquadratura memorabile nemmeno nel pilot, dove di solito si cerca di fare un po’ di colpo presentandosi al meglio.

Il professore di simbologia ad Harvard Robert Langdon (Ashley Zuckerman, Succession, Manhattan) con la scusa di una conferenza viene attirato a Washington dove scopre che il suo mentore, Peter Solomon (Eddie Izzard, The Riches) è stato rapito, e gli è stata mozzata una mano, che viene ritrovata al centro delle Rotonda del Campidoglio, coperta di tatuaggi con simboli che rimandano alla massoneria. Il rapitore, Mal’ahkh (Beau Knapp), - e non si vedeva un personaggio così tatuato dai tempi di Prison Break - costringe lo studioso a cercare un antico portale, se vuole rivedere vivo l’amico. Si trova così, fra luoghi misteriosi, artefatti e citazioni a dipanare un’intricata serie di indizi, anche con l’aiuto dell'agente della CIA Sato (Sumalee Montano), e di una guardia con un passato militare (Rick Gonzalez) e con quello della figlia di Peter, Katherine (Valorie Curry), che si interessa di scienza noetica e per questo viene guardata da lui con un po’ di supponenza.  

Nelle prime scene gli autori Dan Dworkin e Jay Beattie mostrano il protagonista mentre fa lezione ai suoi studenti sul potere dei simboli e sul significato che hanno e su come cambiano anche nel tempo. Li spinge ad interrogarsi su a che punto determinati simboli da benigni diventano maligni. Nella convinzione della liberà di ciascuno di credere in quello che vuole, in qualunque superstizione, domanda loro in che momento rischiano di diventare una minaccia per le proprie convinzioni. Fa notare come alcune frange estremiste si appropriano di alcune immagini (una per tutti la svastica, ma ne mostra diverse altre) e come interpretazioni spesso libere forgiano il cospirazionismo. In che modo diventa un pericolo? Come distinguere i fatti dalle finzioni? Sono quesiti importanti, e il fatto che gli eventi sono collocati nella capitale statunitense, alla luce dei riot di recente avvenuti proprio incoraggiati da questo genere di teorie, poteva dare uno spessore pregnante alla storia, ma in realtà il discorsetto finisce lì.

Non ho letto questo romanzo di Brown, ma ho letto Il Codice Da Vinci, capisco quindi il fascino delle sue storie e apprezzo la sua abilità nel costruire misteri intriganti e affascinare con questi simboli millenari: qui non si viene avvinti allo stesso modo, ma si inanellano una serie di puzzle, che siano oggetti o frasi in latino magari, per cui il professore dà la spiegazione e si va oltre. Non si riesce a tenere un minino di suspence. E visivamente si poteva elevare la narrazione rendendola elettrizzante, ma non ci si riesce. Se avesse avuto più mordente, lo avrei seguito. In questa incarnazione non lo farò, non mi pare nemmeno in fondo che riesca a rendere giustizia alla capacità affabulatoria dello scrittore del materiale originale.

Potenziale sprecato.

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