The Lost Symbol, che ha appena debuttato sull’americana Peacock,
è ispirato all’omonimo libro di Dan Brown, Il simbolo perduto in italiano. Dei popolari romanzi si dice che
sono degli appassionanti thriller ricchi di curiosità, ma che, seppur ben
costruiti, sono scritti in modo linguisticamente pedestre e per questo hanno scarso
valore letterario. Lo stesso di fatto si può dire della realizzazione
televisiva, a giudicare dal pilot. L’intreccio scorre bene, senza momenti
morti, c’è un buon cast, ma la sceneggiatura è cheap e la regia piatta. Non c’è un’inquadratura memorabile nemmeno
nel pilot, dove di solito si cerca di fare un po’ di colpo presentandosi al
meglio.
Il professore di
simbologia ad Harvard Robert Langdon (Ashley Zuckerman, Succession, Manhattan) con
la scusa di una conferenza viene attirato a Washington dove scopre che il suo
mentore, Peter Solomon (Eddie Izzard, The
Riches) è stato rapito, e gli è stata mozzata una mano, che viene ritrovata
al centro delle Rotonda del Campidoglio, coperta di tatuaggi con simboli che
rimandano alla massoneria. Il rapitore, Mal’ahkh (Beau Knapp), - e non si
vedeva un personaggio così tatuato dai tempi di Prison Break - costringe lo studioso a cercare un antico portale,
se vuole rivedere vivo l’amico. Si trova così, fra luoghi misteriosi, artefatti
e citazioni a dipanare un’intricata serie di indizi, anche con l’aiuto dell'agente
della CIA Sato (Sumalee Montano), e di una guardia con un passato militare (Rick
Gonzalez) e con quello della figlia di Peter, Katherine (Valorie Curry), che si
interessa di scienza noetica e per questo viene guardata da lui con un po’ di
supponenza.
Nelle prime scene gli
autori Dan Dworkin e Jay Beattie mostrano il protagonista mentre fa lezione ai
suoi studenti sul potere dei simboli e sul significato che hanno e su come
cambiano anche nel tempo. Li spinge ad interrogarsi su a che punto determinati simboli
da benigni diventano maligni. Nella convinzione della liberà di ciascuno di credere
in quello che vuole, in qualunque superstizione, domanda loro in che momento
rischiano di diventare una minaccia per le proprie convinzioni. Fa notare come
alcune frange estremiste si appropriano di alcune immagini (una per tutti la
svastica, ma ne mostra diverse altre) e come interpretazioni spesso libere forgiano
il cospirazionismo. In che modo diventa un pericolo? Come distinguere i fatti
dalle finzioni? Sono quesiti importanti, e il fatto che gli eventi sono
collocati nella capitale statunitense, alla luce dei riot di recente avvenuti proprio incoraggiati da questo genere di teorie, poteva dare uno spessore pregnante
alla storia, ma in realtà il discorsetto finisce lì.
Non ho letto questo
romanzo di Brown, ma ho letto Il Codice
Da Vinci, capisco quindi il fascino delle sue storie e apprezzo la sua
abilità nel costruire misteri intriganti e affascinare con questi simboli
millenari: qui non si viene avvinti allo stesso modo, ma si inanellano una
serie di puzzle, che siano oggetti o frasi in latino magari, per cui il
professore dà la spiegazione e si va oltre. Non si riesce a tenere un minino di
suspence. E visivamente si poteva elevare la narrazione rendendola
elettrizzante, ma non ci si riesce. Se avesse avuto più mordente, lo avrei
seguito. In questa incarnazione non lo farò, non mi pare nemmeno in fondo che
riesca a rendere giustizia alla capacità affabulatoria dello scrittore del
materiale originale.
Potenziale sprecato.
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