giovedì 16 settembre 2021

LA FERROVIA SOTTERRANEA: fuga dalla schiavitù

“L’uomo bianco è il diavolo” diceva inizialmente Malcom X, nella sua autobiografia raccontata ad Alex Haley, l’autore di Radici da cui è stata tratta una storica miniserie televisiva. Erede spirituale di quella produzione, per i tempi contemporanei, è “La Ferrovia Sotterranea” (Amazon Prime), adattata da Berry Jenkins anch’essa da un romanzo, l’omonimo di Colson Whitehead, che dimostra bene come quell’affermazione del leader nasca in un substrato storico che non la rende proprio gratuita, ma al contrario ben condivisibile.

The Undergroud Railroad, in originale, è la storia di un viaggio, meglio una fuga, di una schiava nera, Cora (Thuso Mbedu), dalla piantagione dei Randall in Georgia attraverso numerosi stati del Sud, in cerca della libertà, attraverso la misteriosa ferrovia sotterranea del titolo e perennemente e ferocemente inseguita dal cacciatore di schiavi Arnold Ridgeway (Joel Edgerton), che ha al suo seguito un piccolo aiutante nero, Homer (Chase W. Dillon). La ferrovia in questione è un’invenzione della finzione, lì dove quella opzione di salvezza nella realtà era costituita da una rete di abolizionisti e nascondigli secreti che aiutavano uomini e donne a fuggire e mettersi in salvo.

L’aspetto che più mi ha sorpreso è quanto questa produzione mi abbia richiamato Westworld. Al di là di questo accostamento, che non ho idea se altri l’abbiano fatto, è la cinematografia l’elemento che la eleva, con inquadrature di scenografie naturali che ci si incanta a guardare. Nel suo intimo la storia è non tanto forse di denuncia quanto di testimonianza di quello che un popolo, se così vogliamo chiamarlo, ha dovuto subire – ai passeggeri che trovano così la fuga viene chiesto infatti di raccontare la propria storia, annotata su appositi libroni. Assistiamo al senso del raccontare la propria storia come atto rivoluzionario, come azione di consapevolezza della propria identità e rilevanza, dinanzi alle atrocità subite.

È un pugno nello stomaco. Si fatica a scrollarsi il sadismo del pilot dove un fuggitivo viene arso vivo dopo essere stato frustato ai limiti dell’incoscienza mentre i padroni si godono lo spettacolo banchettando, o a dimenticare il proprietario bianco che sta a guardare i suoi schivi mentre copulano per assicurarsi che figlino, come fossero bestiame. L’apparente buonismo della Carolina del Sud (1.02) nasconde esperimenti medici sugli uomini e donne operate perché non possano avere figli, in nome di una società che mira a migliorare la “razza negra”; il supremazismo bianco della Carolina del Nord, con i suoi sentieri alberati di impiccati e i suoi roghi di libri, cerca un folle stato “puro” dove agli afro-americani non è permesso neppure di esistere, nemmeno come schiavi, annullati completamente, e con coloro chi osa aiutarli.

Ci sono le vite sprecate per nulla, e talenti – Cora incontra ed è costretta a lasciarsi alle spalle numerosi altri fuggitivi come lei che incontrano un brutto destino, da quel Caesar (Aaron Pierre) dagli occhi azzurri che deve nascondere di saper leggere, che inizialmente scappa con lei, al testardo Jasper che canta e si rifiuta di mangiare, il cui corpo viene abbandonato nell’inferno del Tennessee.

Oltre alle aggressioni al corpo nero, come ben ce le ricorda Ta-Nehisi Coates, la deumanizzazione dei neri, creduta dai bianchi e dai neri stessi, ha mostrato come si è potuti arrivare a legittimare pratiche che sembrano incivili e insensate ora, che erano messe in atto solo l’altro ieri. E di come i neri stessi possano essersene fatti complici. Alla fine questa epopea è una lotta di volontà, quella della ragazza indomita che fa di tutto per lasciarsi alle spalle gli orrori, credendo di essere stata abbandonata dalla madre, la cui storia viene abbozzata in chiusura (1.10), e quella del cacciatore che pure è scresciuto con un padre antischiavista (Peter Mullan) che gli insegna a cercar il “grande spirito” in tutti gli esseri umani, ma non lo trova e diventa un terribile persecutore, per denaro.

C’è speranza di fronte a tutto il male e la violenza a cui si assiste. Ce lo trasmette la protagonista con la sua resilienza, ma viene anche dall’idea, espressa da uno dei personaggi (1.09), che “un’illusione feconda è meglio di un’infeconda verità”, credere di poter costruire una società in cui ci sia uguaglianza e rispetto reciproco, anche quando le circostanze fanno credere che non sia possibile, aiuta a renderla vera, più di quanto non farebbe un realistico disfattismo che vede con cruda desolazione i fatti.  

Mi sono chiesta, se, al di là di una solida narrazione, qualitativamente notevole, mi sia stato detto qualcosa di nuovo sul razzismo, qualche prospettiva inusuale che non avessi già incontrato. Devo ammettere, con rammarico, che non credo sia così. Non mi ha svelato nulla di nuovo. Il solo taglio inatteso è la giustificazione della schiavitù come una prova della teoria del “destino manifesto”, ovvero nel ruolo di predominio che Dio avrebbe assegnato agli Stati Uniti. Non l’avevo mai considerata in questi termini. Al di là di quello non mi pare di aver scoperto altro sulla condizione dei neri d'America, come invece magari mi era capitato con LovecraftCountry. Forse sono stata cieca io?

Ammesso questo: che valore etico ha questa miniserie? Io per me lo vedo, metaforicamente, nel sacchettino di semi che Cora si porta dietro come un piccolo tesoro, che qui tanto metaforico non è. Queste storie, proprio come dei semi, dovrebbero far germogliare la consapevolezza di come il razzismo sia cresciuto endemico e sistemico e della necessità dell’antirazzismo.  

Nessun commento:

Posta un commento