lunedì 6 settembre 2021

THE CHAIR: per un paradigma di sviluppo umano

Sono tutte persone che stanno metaforicamente annegando e devono arrabattarsi per stare a galla, i personaggi di The Chair – La direttrice (Netflix), la commedia in sei dinamiche puntate di mezz’ora circa ideata da Amanda Peet (Togetherness), anche produttrice esecutiva insieme a David Benioff e D.B. Weiss (Game of Thrones), e Annie Julia Wyman, una laureata di Stanford con PhD in inglese ad Harvard che come accademica ha un grande interesse per la comicità, sulla quale lavora in prospettiva di una teorizzazione trans-storica (profilo LinkedIn; bio sul sito di Harvard).

Ji-Yoon Kim (Sandra Oh, Grey’s Anatomy) è la prima donna, peraltro di origine coreana, a diventare direttrice (chair, in originale) di un dipartimento di lingua e letteratura inglese in un’università, il fittizio Pembroke College, che sta perdendo rapidamente iscritti. Avere quel ruolo è per lei il sogno di una vita che si realizza, ma si trova subito a dover affrontare situazioni spinose. Il preside Paul Larson (David Morse) la informa che, dato che i fondi sono scarsi, deve mandare in pensione alcuni professori che, pur bravi, non attirano studenti. L’anziana studiosa di Chaucer, Joan Hambling (Holland Taylor), che riceve innumerevoli recensioni negative, è stata relegata in uno scantinato; le classi del professore di letteratura americana Elliot Rentz (Bob Balaban) sono così scarne che Ji-Yoon, per non ferire il suo ego, unisce le sue lezioni a quelle dell’emergente, grintosa, richiestissima collega Yazmin McKay (Nana Mensah), che aspira a diventare di ruolo e di cui lui però non condivide il metodo didattico. E poi c’è Bill Dobson (Jay Duplass), ammirato professore di modernismo che, vedovo da circa un anno, perde un po’ la rotta ora che la figlia parte per il college e lui rimane solo: Ji-Yoon gli vuole bene. Sul fronte di casa, la direttrice è separata dopo che il compagno si è trasferito per lavoro e l’ha lasciata per un’altra. È madre adottiva della bimba ispanica Ju-Hee (Everly Carganilla), detta Ju-Ju, a cui ogni tanto finisce per fare da baby-sitter il vecchio padre che le parla in coreano, Habi (Ji-Yong Lee).

Non c’è un momento di pausa in questa produzione che, scrive bene The Atlantic (qui), segue la struttura della piramide di Freytag: nello spazio di circa tre ore affronta con leggerezza bene molte questioni significative, anche se ritengo fallisca nella sua argomentazione principale.

Un punto forte della serie è che si vede che chi scrive ha una effettiva competenza letteraria che va al di là della citazione erudita. Troppo spesso certe professioni si pensa che possa farle chiunque perché il senso comune fa ritenere intuitivo un certo genere di sapere. In chiusura si fa una dichiarazione d’amore per le lettere: una storia è uno stato di possibilità, una conversazione, un’occasione per appropriarsi di un punto di vista diverso dal proprio. Dal primo all’ultimo, i personaggi sono convinti di svolgere un compito sociale rilevante insegnando lettere. Quando la scuola decide di assumere David Duchovny (The X-Files), nel ruolo di sé stesso, per sostituire Bill, in modo da attirare nuovi iscritti grazie alla sua fama, Ji-Yoon si mostra indispettita del fatto che, come syllabus questi vuole rispolverare la dissertazione di dottorato mai finita scritta decenni prima. Ma gli studi sono andati avanti. Gli snocciola (1.05) che nel frattempo ci sono stati teoria degli affetti, ecocriticismo, informatica umanistica, nuovo materialismo, storia del libro, studi di genere e teoria critica della razza…Quello che la serie fa qui è mostrare con consapevolezza che, forse dall’esterno appariranno statici, ma anche in questi studi ci sono ricerca e novità di rilievo per il pensiero. E in tutto il percorso diegetico – e in che modo necessiterebbe uno specifico approfondimento – ci si tiene in costante equilibrio nella necessità di dar valore allo stesso tempo alle radici passate e alle innovazioni di concetti e prospettive e metodologie. Mai l’ho visto fare come qui. Anche perché l’unica serie che io ricordi che si è avvicinata a queste tematiche è la troppo-presto-cancellata The Education of Max Bickford.

Un ulteriore punto di forza è la multiculturalità. Madre di origine coreana e figlia ispanica sembrano avere di fatto poco in comune, eppure le tradizioni di ciascuna convivono e si intersecano in modo pregnante. La piccola Ju-Ju viene accompagnata ad una cerimonia Doljabi, dove una bimba di un anno deve scegliere fra diversi oggetti, che rappresentano quello che le riserva il futuro. Ci sono uno stetoscopio (sarà medico), una matita (insegnante), un pennello (artista), una pallina (sportiva), una banconota (ricca), e una lunga corda (avrà lunga vita). Poi però in casa contemporaneamente si prepara per essere ambasciatrice culturale per la sua classe del messicano Dia de los muertos, e per Bill che la segue in queste tradizioni culturali hanno un impatto umano che va al di là dell’aspetto folkloristico. Per la piccola unirle è naturale e in chiusura - ATTENZIONE SPOILER – la vediamo capire un’osservazione fatta in coreano dal nonno, quando quest’ultimo era convinto che lei non lo intendesse.

Dove ritengo che l’intenzione degli autori fallisca è nella gestione della propria storia principale. Bill, durante una lezione seguitissima, videoregistrata coi cellulari, nel fare considerazioni sul potere e il fascismo, in modo satirico fa il saluto nazista. La reazione degli studenti rispetto a quel gesto innesca un focoso dibattito sulla libertà di espressione e sull’importanza del dissenso e culmina con la sospensione e successiva richiesta di licenziamento dell’insegnante.

Ora, la questione di Hitler mi è parsa pretestuosa. Questo non perché un evento del genere non possa verificarsi  - anzi, posso dire senza timore di smentite che una cosa del genere si è verificata nel mio liceo, con intenzioni molto meno sacastiche da parte dell’insegnante di quanto non si sia verificato qui e con una gestione dell’accaduto molto differente. Questo nemmeno perché non meriti di venire messa in discussione l’opportunità in toto di un simile gesto, anche se con un intento di certo non di supporto dell’ideologia che rappresenta. Però qui sta il punto, se dico che la questione è stata pretestuosa è perché, sebbene la lettura che ne è stata fatta sia stata pronazista, allo spettatore è evidente senza alcunissima ombra di dubbio che non era minimamente intesa in quel modo, ma era di critica e di smacco. Forse non era appropriata comunque, e questo meritava di essere discusso – ovvero quali siano i limiti dell’espressione del pensiero e in che modo specifici registri di espressione possano colorare una stessa locuzione con un significato piuttosto che con un altro – ma non si sono di fatto messi in contrapposizione due modi di pensare diversi.

Il professore e gli studenti la pensano allo stesso modo qui rispetto al nazismo, ma il professore lo ha comunicato in un modo che non è stato decodificato come era inteso. E qui sta per me il fallimento, che è un fallimento pedagogico. Questo quei professori dovevano insegnare. La serie sottoscrive l’idea per cui l’educazione (e tanto più quella universitaria) non è solo passiva assimilazione di contenuti, ma è una formazione a un metodo e un allenamento a recepire fatti e traduzioni culturali in modo attivo e critico, tenendo conto delle complessità. Qui c’è un atteggiamento di un ragionevole dissenso verso un contenuto tossico, ma contemporaneamente appunto pretestuoso, perché incapace di legare quel gesto al significato che aveva nel contesto con cui è stato utilizzato. Se fosse stato un gesto fatto sul serio sarebbe stato diverso ma così si mostra solo un corpo studenti privo degli strumenti necessari per leggere appropriatamente un elemento del discorso. Potevano osteggiarlo ugualmente appunto, nella sua opportunità – i riferimenti al nazismo sono purtroppo sufficientemente ubiquitari da rendere rilevanti simili disquisizioni. Così gli autori hanno solo trovato una facile scappatoia per creare un contrasto senza compromettere un co-protagonista dandogli un modo di pensare scomodo (che poteva essere un tema anche meno problematico di questo). Per aver costruito gran parte della sua narrazione intorno a questo nucleo, si sono curate troppo poco le argomentazioni. Un piano di speculazione importante poteva essere dato dalla dissonanza fra quello che è e quello che sembra, e sul ruolo dell’apparire in un certo modo, tanto più in una società visuale come la nostra – tangenzialmente infatti questi temi sono emersi. Insomma, l’agone intellettuale ingaggiato doveva essere combattuto su un piano diverso.

Ci sono in nuce variegate riflessioni sul ruolo delle donne e delle minoranze etniche, su come è cambiato nel tempo, in un ambiente tradizionalmente dominato da uomini bianchi restii al cambiamento, in modo minore anche sull’ageismo – Joan, declinata prevalentemente in modo comico, ne è un esempio; si desume dalle poche parole della moglie del rettore; Yaz, in modo molto interessante, rimarca a Ji-Yoon che si comporta nel suo ruolo come se finalmente le concedessero di averlo, non come se lo meritasse. Emerge anche la flessibilità del mondo accademico americano, comparata al nostro.

La protagonista principale ama insegnare, ma quello che deve imparare a navigare sono le richieste burocratiche, le pubbliche relazioni, le pressioni di budget e di gestione del personale… Sono questioni che non ha il lusso di poter ignorare, ma alla fine in ogni caso quello che si può evidenziare – e si rileva nella protesta di Bill nei confronti del tentativo di influenzare la scelta della bimba di un anno nella cerimonia doljabi come dalle parole di Ji-Yoon che lo difende dinanzi alla commissione disciplinare – è che la serie crede in quello che Martha Nussbaum, nel suo “Not For Profit” chiama un paradigma di sviluppo umano contrapposto ad un paradigma orientato alla crescita economica, un’argomentazione non da poco per una serie frizzante di circa tre ore totali che spero rinnovino per una seconda stagione.     

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