Una statua, piazzata
proprio nel mezzo di un incrocio cittadino, causa molti incidenti d’auto, e una
porzione della popolazione vuole che venga rimossa. A opporsi strenuamente è
Nathan Rutherford (Ed Helms, The Office),
discendente del fondatore a cui la statua è dedicata, che storicamente ha
stretto un produttivo accordo con i locali. Questa sua posizione lo mette in
contrasto con la nazione dei nativi americani, i Minishonka, ed in particolare
con Terry (un magnifico Michael Greyeyes), CEO del locale casinò, e crea
tensione con la sua migliore amica Reagan (Jana Schmieding, un’attrice Lakota
Sioux) che sogna un grande centro culturale per la sua gente. A sostenere
Nathan spesso anche in contrasto con la prima sindaca nera della città, Deirdre
(Dana L. Wilson), è il giovanissimo Bobbie (Jesse Leigh) uno studente di liceo
che gli fa da assistente personale. Affascinato dal potenziale delle vicende,
arriva in città un giornalista in cerca di uno scoop, Josh (Dustin Milligan).
Questa è la premessa della
sit-com Rutherford Fall - a cui da noi si è aggiunto Amici per la vita (su Peacock - a cui in Italia dal 15 febbraio possono accedere gli abbonati Sky e Now) -, nome della cittadina dove si svolgono le vicende, ideata da Ed Helms,
Mike Schur (Parks and Recreations, Brooklyn Nine-Nine, The Good Place) e Sierra Teller Omelas.
C’è molta dolcezza di fondo
in questa produzione che ha un delicato umorismo e affronta questioni spinose. Nathan
è un conservatore, per quanto possa definirsi tale qualcuno che ha come
assistente un ragazzo non-binario che si trucca. Ama il passato e va fiero
delle proprie radici, anche se è costretto con riluttanza ad ammettere che
spesso non è così bello e gentile come vorrebbe. Nel rapporto fra Nathan e
Reagan si vedono gli echi di quello fra Leslie e Ron in Parks and Rec. L’intervista a Terry (“Terry Thomas”, 1.04) mostra
che cosa è stata la sua formazione da “indiano” dei giorni nostri e cosa anima
il suo senso di rivendicazione.
Che cos’è la storia? Che
cosa è giusto conservare e preservare? Questo è il fulcro dell’interesse, anche
con Reagan che è in perenne ricerca di artefatti e oggetti di valore per quei
nativi che si sono visti depredati di tutto. È desolate vedere
inizialmente che un misero cestino è quasi tutto quello di valore che il suo
centro culturale può mettere in mostra.
I Minishonka sono una
tribù fittizia, non realmente esistente, ma poco importa. Se Terry, con il suo
casinò, rappresenta la guerra economica, e Reagan rappresenta quella socioculturale,
si vede attraverso i due personaggi come i due aspetti non siano così distanti
l’uno dall’altro come si potrebbe credere.
Se l’opportunità di
abbattere o meno determinate statue – con il valore simbolico celebrativo che
si portano dietro - è stato un dibattito che ha interessato molti Paesi,
compresa l’Italia, quella questione è stata toccata solo in parte, in modo in
qualche modo tangenziale. Allo stesso tempo non ci si è limitati a quello, ma ci
si è interrogati sul peso culturale dell’arte e della rappresentazione, sul
loro ruolo, e il significato dell’appropriazione – un concetto che quando si
parla di Arte con la A maiuscola personalmente trovo sempre molto problematico
-, è stato oggetto di discussione apertis
verbis.
In “History Fair” (1.05),
i personaggi devono valutare quale opera premiare fra quelle presentate da un
gruppo di studenti. La rappresentazione diegetica soppesa vari criteri ed
esigenze. Non ne ho amato l’insoddisfacente conclusione, che ha optato
consapevolmente non per la migliore, ma per la più blanda, quella che non
offende nessuno. Un po’ come il film “Green Book”, si è affermato.
Traslando la questione sul
piano metatestuale ci si interroga sul ruolo di questa sit-com stessa come
potenziale arte: con i suoi modi garbati difficilmente offende, ma certo non
lascia non interrogate prospettive consolidate. C’è un respiro in fondo poco
polemico, e il “bravo uomo bianco” che sta dalla parte della visione tradizionale
non è ottuso e privo di sentimenti, vuole fare la cosa giusta. E in questo
forse sta il suo vero limite: si scaglia contro la Disney-ficazione della Storia,
vuole quella autentica, accurata, ma allo stesso tempo è in difficoltà
nell’accettare sangue e colonizzazione.
Qui un incontestabile pregio è quello di riuscire a dare voce a chi normalmente non ne ha — la writer’s room ha uno dei più ampi staff di indigeni nella storia della televisione americana (ET oline) — e di fare proprio quello che essere più inclusivi di voci diverse consente di fare, ovvero guardare le cose da un diverso punto di vista. Forse non ancora a sufficienza. Forse, per essere creativamente più riuscito dovrebbe avere il coraggio di essere meno inoffensivo. O forse, semplicemente, dare ancora più le redini a chi fino ad ora non ha potuto tenerle.