Mi ero preparata i
pacchetti di fazzoletti per la series
finale di This is Us. Del resto,
delle 106 puntate andate in onda in sei stagioni, solo per una manciata credo
di non aver pianto. Anzi, se una critica si può muovere a questa creazione di
Dan Fogelman è proprio quella di essere strappalacrime, addirittura emozionalmente
monipolatoria, e sdolcinata magari. Per la finalissima in effetti sono serviti
i fazzoletti, ma il giusto. Si è tenuta fedele a sé stessa, fino in fondo.
Non ho mai dato troppo
credito alle vicende dei Pearsons, fatti salvi due aspetti. In un panorama
televisivo che mostra sempre più famiglie disfunzionali, è stata in grado di presentarne
una dove tutti si vogliono bene e i contrasti, anche dove sono grandi, si
risolvono, rimanendo presenti gli uni per gli altri. In questo c’è qualcosa di “antico”
e rassicurante, ma lo ha fatto mostrando una famiglia moderna, allargata, non
completamente favolistica e fuori dal mondo. Poi, ho da subito molto apprezzato
il modo in cui ha saputo riscrivere la mascolinità, ritraendo modelli virili
che non per questo erano machisti, ma anche vulnerabili e capaci di mettersi in
discussine e comunicare. E lo ha fatto davvero con tutti i personaggi uomini. Si
comincia ad andare in quella direzione in altri show – penso a Ted Lasso – ma quieto quieto questo programma
familiare ha saputo fare da apristrada.
La conclusione ha messo la
lente di ingrandimento su quello che in realtà è un altro aspetto che ha svolto
in modo magistrale, uno ovvio, ma che proprio per questo rischia troppo facilmente
di non venire notato: l’intersecarsi dei piani temporali, la continua presenza di
rimandi e di corrispondenze che si fanno eco. Ho deciso di vedere le ultime due
puntate – “The Train (6.17) e “Us” (6.18) - una di fila all’altra, scelta che
si è rivelata appropriata, forse anche perché erano entrambe scritte dall’ideatore
e dirette da Ken Olin. Lì questo gioco di passaggi apparentemente semplici ha
brillato. Basta solo pensare al “viaggio in treno” di Rebecca (Mandy Moore), e
vederla osservare i figli fisicamente presenti nello stesso momento nella forma
di tutti gli attori che nelle diverse età li hanno interpretati, per venire
illuminati sul sottile gioco di memoria che la serie ha saputo costruire. O l’abile
ripresa nella finale di un quadro di
cui si era parlato nella quinta puntata della prima stagione – ne avevo fatto
menzione qui
nell’ultimo paragrafo, e invito a rileggerlo perché quello è davvero il senso, la
poetica della serie tutta: ognuno di noi aggiunge qualcosa, e siamo sempre
presenti, anche chi se ne va c’è ancora. Un magnifico messaggio su quel “noi”
del titolo della puntata, sulla vita, sulla serie…
E così addio a Rebecca, Jack, Randall, Kate, Kevin e a tutti gli altri. Li lascio andare senza particolari rimpianti, ma è stato bello conoscerli. Saranno parte di me.
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