Siamo nel futuro. La Terra
è diventata un intollerabile inferno e sta morendo, la gente vive nello smog
più oppressivo, non ha cibo e acqua pulita, ci sono guerre e conflitti costanti.
Un’intelligenza artificiale (IO), la matrice computerizzata più sofisticata mai
costruita, è stata spedita sulla Luna perché si creasse un ambiente e una
società utopica che, tre generazioni dopo, tornasse sulla terra a salvarla. Ora
è arrivato quel momento: questa è la premessa di Moonhaven (AMC+), che dopo le prime 6 puntate della prima stagione era stata già confermata per una seconda, anche se poi purtroppo la rete ha fatto marcia indietro cancellandola per un piano generale di riduzione dei costi.
Bella Sway (Emma
MacDonald) — un nome che, ci viene ricordato, è legato a bellezza in italiano,
ma alla guerra pensando al latino —, una pilota terrestre, ha
intenzione di contrabbandare della merce con la scusa di accompagnare sulla
luna l’Inviata umana (la Envoy, in originale) dell’intelligenza artificiale Indira
Mare (Amara Karan) per dare inizio al “Ponte” perché i Lunari possano ritornare
sulla Terra ad aiutarla. Arrivata lì però, viene uccisa la sorellastra che non
sapeva di avere, Chill (Nina Barker-Francis), e due detective (anzi ‘tective,
nel gergo) della polizia locale, Paul (Dominic Monaghan, Lost – come non sorridere quando gli fanno pronunciare la battuta “I
am lost”) e Arlo (Kadeem Hardison) indagano: a uccidere la ragazza è stato un
certo Strego (Adam Isla O’Brian). Appare presto chiaro che sotto c’è una
cospirazione, in cui è coinvolta anche la guardia del corpo dell’Inviata
terrestre, Tomm (Joe Maganiello), e forse la stessa “reggente” della Luna, a
capo del Consiglio, Maite (Ayelet Zurer), che ha come sua seconda Sonda
(Yazzmin Newell). Alcuni giovani, fra cui Wish (Josh Tedeku), figlio di Arlo,
si accingono alla partenza, perché sono quelli che chiamano “First Wavers”, i
giovani della prima ondata che si sono preparati per la missione di rendere
ri-abitabile la superficie del terzo pianeta dal sole. I ribelli separatisti che
vogliono l'autonomia della Luna e lasciare la Terra al suo destino però
aumentano: “Liberate Lune! Fermate il Ponte!” (1.04). Già in passato, peraltro,
sul nostro satellite, era stata inviata una colonia, ma la situazione era
andata male e l’esperimento terminato e ricominciato: con il nome di “Primo”, è
una parte ancora selvaggia dove i vecchi coloni sono sepolti. Paul, insieme
alla compagna Lone (Elaine Tan), cresce anche una figlioletta molto precoce per
la sua età, Elma (Martha Malone), mentre sul lavoro viene affiancato da una
giovane apprendista, Blu (Robyn Holdaway)
Di fronte alla situazione
distopica del nostro pianeta, c’è quella utopica della Luna (Moon, Lune), e qui
sta proprio l’originalità delle creazione di Peter Ocko (Lodge 49, che viene richiamato in
certi modi di sentire la realtà) che mescola fantascienza, fantasy, giallo e
atmosfere hippy. È stato pubblicizzato come thriller di suspense, e colpi di
scena ce ne sono diversi, fino in ultimo. ma a dominare è l’atteggiamento un
po’ new age, non proprio da setta ma quasi. I Lunari, vestiti di colori
sgargianti di ogni tipo, dall’aspetto vagamente induista, si intrattengono nel
verde in balli e canti, con cui punteggiano le loro giornate, sono motivati da
nobili sentimenti, e gli stessi detective sono più interessati ad aiutare le
persone emotivamente, che altro. Del resto nulla sfugge all’intelligenza
artificiale che sa tutto di loro, grazie anche a un impianto sottopelle nella
schiena, e che i ribelli si tolgono. Anche se, sottolinea l’idealista Paul, non
li controlla, ma impara da loro – hanno letto Orwell, Kazuo e Mwangi, dice
(1.01), e lo ribadisce in seguito anche Arlo (1.06). Parte del loro obiettivo
nel ritornare sulla terra è anche di portarsi dietro un modo di pensare nella
convinzione che il potere tecnologico di risolvere i problemi del pianeta possa distruggere gli umani se non si accompagna a una cultura in grado di contenerla.
In questa società,
pacifica e in sintonia con la natura, figli e genitori biologici si vedono solo
al momento della nascita e della morte - in cui si è elevati verso il cielo
appesi su delle lettighe a degli alberi, non sotterrati (1.04). Tutti crescono
i figli altrui, nella convinzione che il sangue porti sangue e che darci peso porti
alla costruzione di famiglie e conseguentemente di tribù, di nazioni e così
alle guerre. Loro credono in quelli che chiamano legami d’acqua. Io non sono
molto convinta, ideologicamente parlando, ma è affascinante da contemplare. Mi
sono domandata che senso avesse vedere i propri progenitori al momento del
trapasso, dal momento che di fatto sono estranei, ma mi sono venuti incontro
proprio rispondendo a questo quesito formulato dalle labbra di Bella: è solo un
tributo ai vecchi costumi.
Ogni realtà porta con sé
un linguaggio e qui ci sono numerosi neologismi (almeno in inglese) che si
apprendono in modo naturale a mano a mano che si procede con la visione: come
“gratz” per dire “grazie” o “doda” per dire “papà”, “mada” per dire “mamma”.
Moonhaven si interroga sulla natura umana, e se sia destinata al male,
e su quali siano i meccanismi che la spingano ad autodistruggersi o al
contrario a migliorarsi. Si riflette sul ruolo della conoscenza – e c’è un effettivo
“albero della conoscenza” in questa sorta di Eden. “Non sopravviviamo a
dispetto delle nostre ferite, ma sopravviviamo a causa di esse” (1.05),
asserisce Bella. Nel nuovo mondo c’è armonia, o forse un’illusione di armonia, ma
io ci ho visto una sorta di valore protrettico, di esortazione a una nuova filosofia,
a un nuovo modo di concepire i rapporti umani e con la natura che ci circonda,
ma non è una paternale ambientalista e anti-capitalista. È un’esperienza delicata ed
eterea, stravagante e con un che di magico, con cui bisogna entrare in
sintonia, e non necessariamente adatta al palato di tutti.
Apprezzarlo alla fine è questione di feeling. Io sono riuscita a lasciarmi trasportare anche con un po’ di stupore per i loro riti e, a sentimento, mi è piaciuta parecchio.
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